Paolo Dimalio, il Fatto Quotidiano 18/7/2016, 18 luglio 2016
C’È UNA RETE SENZA PADRONI MA L’UE LA VUOLE CHIUDERE
Nelle periferie di Roma Est, strane antenne punteggiano tetti e balconi. Sembrano parabole satellitari, ma all’altro capo del filo non c’è un televisore sintonizzato su Sky. Seguendo il cavo che si snoda dall’antenna, si giunge ad un router WiFi, una di quelle scatole per navigare su Internet senza fili. Connesse a quel router, le persone condividono file e chattano col pc, ma senza pagare l’obolo ai service provider come Telecom o Fastweb. Grazie a Ninux: una rete urbana senza fili e senza padroni attraverso cui gli utenti si connettono direttamente l’uno all’altro, senza mediazioni.
LA PRIMA ANTENNA E LA DEMOCRAZIA SUL FILO
Ninux nasce a Roma nel 2003, quando Nino Ciurleo, ingegnere informatico, accese la prima antenna sul balcone di casa sua. Era in vigore la legge Pisanu: trasmettere sulle frequenze libere del WiFi, senza licenza, era reato. Ma la prima pietra era stata posata. Oggi Ninux conta 371 nodi attivi e quasi 3mila potenziali. Dalle periferie romane si è diffusa in tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia. Gli esperti chiamano Ninux in due modi: rete mesh o rete comunitaria. Un bene comune senza proprietario. Ciascuno si prende cura del suo nodo (antenna, cavi, router), senza guadagni e gerarchie, per il puro gusto di sperimentare e condividere, collaborando a una sfida epica: spezzare il dominio dei fornitori di connessione, per riportare internet alla democrazia delle origini. Il quartier generale del gruppo romano è il Fusolab, associazione culturale fondata su due parole d’ordine: partecipazione e condivisione. La sede è tra via Casilina e Centocelle, dove si incontrano gli adepti. È questa la fatica dei beni comuni: mettersi d’accordo quando uno vale uno, per davvero, senza capi e gerarchie. A posare le antenne sui tetti sono commessi, meccanici, macchinisti, ingegneri. “Se sei un informatico non guasta, ma non è necessario”, spiega Federico Capoano, sviluppatore open source: “Basta un’antenna da 70 euro (reperibile anche su Amazon), un cavo per collegarla al router e un po’ di carpenteria (palo zincato, staffe, tiranti)”. Sui router, però, i ragazzi di Ninux fanno una modifica: sostituiscono il software già installato con un softwareopen source. Solo così possono connettersi l’uno all’altro. Le persone comuni usano il WiFi per navigare sul divano o a letto; loro invece per costruire una rete libera dai service provider. Peccato che, d’ora in poi, sarà vietato usare i router come meglio si crede.
L’ULTIMO OSTACOLO: BRUXELLES
È il diktat dell’Unione europea con la direttiva Red. L’articolo 3.3.(i) pone vincoli rigidi alla libertà dell’utente: vietato “introdurre un software nell’apparecchiatura radio, se non è stata dimostrata la conformità della combinazione dell’apparecchiatura radio e del software”. Traduzione: sui router, si potrà installare solo un software certificato dal produttore. La direttiva è del 16 aprile 2014, n. 54. In Italia entrerà in vigore il 15 luglio 2017. Sarà possibile, da quel momento, installare software open source sui router WiFi per creare reti comunitarie? Dipende. Se il produttore verifica che è compatibile con il suo router, lunga vita alla rete mesh. Altrimenti, Ninux rischia di affondare. Per capire come andrà, basta dare uno sguardo Oltreoceano.
Negli Usa, una normativa simile è stata approvata circa un anno fa. Il risultato? Tp¬Link ha bloccato i suoi router: impossibile sostituire il software. Del resto, la verifica ha un costo, che nessuna azienda ha voglia di sostenere. “Più facile ed economico bloccare interamente il dispositivo – spiega Federico Capoano – e impedire l’installazione di qualunque software alternativo”. Perciò la Free Software Foundation ha lanciato un appello firmato da reti comunitarie e centri di ricerca, raccolto da Julia Reda. “Se non si può sostituire il software dei router”, spiega Leonardo Maccari (ingegnere e ricercatore dell’Università Trento), “bisognerà escogitare sistemi diversi, più costosi, complicati e incerti”. Capoano non si fa illusioni: “Già ora le reti comunitarie chiedono impegno e partecipazione. La direttiva Ue aumenterà il livello di difficoltà e questo potrebbe essere fatale”.
ATENE, BERLINO BROOKLYN E LA CATALOGNA
Reti comunitarie, intanto, germogliano in tutto il mondo. A New York, dopo l’uragano Sandy, i soccorsi furono coordinati grazie a Red Hook, rete mesh di Brooklyn, perché il quartiere era rimasto isolato. Freifunk, rete Berlinese da 35 mila nodi, offre connessione gratuita ai rifugiati politici. Come la comunità Awmn ad Atene: col programma “No border WiFi”, gli attivisti garantiscono internet ai migranti di Idomeni. Non è poco: il permesso di soggiorno in certi paesi si può richiedere via Skype. Quando Mubarak spense internet in Egitto, una rete mesh avrebbe continuato a funzionare. Non è un caso, se l’Ue ha investito circa 12 milioni per la ricerca su questo tipo di reti, coi progetti Confine, Clommunity e netCommons. Eppure, la direttiva Red assesta un colpo quasi letale. “L’Ue è un gigante in cui la testa non parla con la coda”, dice Maccari, “la politica guarda al presente, la ricerca al futuro, il dialogo è complesso”. Leonardo Maccari lavora a netCommons.eu, programma di ricerca triennale finanziato dalla Comunità Europea e coordinato dall’Università di Trento. Coinvolge ingegneri, sociologi e giuristi provenienti da università e centri di ricerca europei. “Lo scopo è studiare le reti comunitarie per aiutarle a crescere e svilupparsi”, spiega. Secondo lui, in molte situazioni il mercato fallisce nel portare la banda larga. Il caso spagnolo lo dimostra. Nelle sperdute campagne della Catalogna, l’accesso a internet lo offre Guifi, una delle reti comunitarie più grandi al mondo (oltre 35 mila nodi). Per i provider commerciali, connettere queste aree povere e montagnose sarebbe un investimento a perdere. Guifi ha ricevuto un premio dall’Ue per i suoi sforzi nella diffusione della banda larga. Tuttavia, il vecchio continente foraggia i provider commerciali, nella convinzione che debba essere il mercato a portare internet nelle aree che ne sono escluse. Ma una terza via esiste. “È la logica dei beni comuni”, dice Maccari, “affidare agli utenti la gestione della rete”. Nel 2009, Elinor Ostrom vinse il Nobel per l’economia: aveva dimostrato che si possono gestire i beni comuni in modo efficiente. Qualcuno, in Europa, l’ha dimenticato.
di Paolo Dimalio, il Fatto Quotidiano 18/7/2016