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 2016  luglio 18 Lunedì calendario

BLAIR IL BUGIARDO: I CRIMINI DI GUERRA DI UN EROE DI CARTA

Per aver convinto con informazioni false il parlamento a votare l’invasione dell’Iraq, adesso Tony Blair rischia di essere interdetto a vita da qualsiasi incarico pubblico; cacciato con ignominia dal Privy Council, il Consiglio della Corona; espulso dal Labour; citato in giudizio da familiari dei 179 soldati britannici uccisi in Mesopotamia; e processato da un tribunale straniero per crimini contro la pace. Inoltre potrebbe uscire dal giro lucrosissimo degli incarichi Onu e di conseguenza perdere consulenze internazionali (tra i suoi clienti banche d’affari, regimi arabi, dittature centro-asiatiche) che sono origine della sua fortuna, valutata in 60 milioni di sterline. Probabilmente schiverà punizioni e conterrà i danni economici; ma i danni all’immagine sono già ora rilevanti e in Gran Bretagna forse definitivi, si direbbe dal deserto che gli si è fatto intorno.
C’è tuttavia un Paese, di questo possiamo essere sicuri, che non gli volterà le spalle, una terra generosa dove la considerazione per Blair non è mai stata incrinata da dettagli come la disastrosa avventura in Iraq, e si manifesta ancor oggi senza alcun impaccio, così salda e straripante da riunire politici e giornalisti che per il resto si guardano in cagnesco, inconsapevoli di quanto invece li unisca. Quel Paese è l’Italia.
Blair da noi piace e sempre piacerà. Non ancora presidente del consiglio Renzi già lo cita tra i propri numi tutelari (“Un punto di riferimento straordinario, lo ammiro, è un modello per me”) e da quel momento non lo toglie più dal piedistallo. L’inglese ricambia e dichiara l’italiano suo erede politico. Il problema con l’ubiquo Blair, uno che il giovedì presenta il libro del socialista Zapatero e il sabato è ai funerali di Ariel Sharon, è che non sai mai dove stia esattamente anche nella geografia politica. Mentre Renzi lo celebra, Berlusconi rivendica che Blair è amico suo (“Un buon amico” conferma Blair), e Libero annuncia: Blair è “l’asso nella manica” del Cavaliere per rilanciare Forza Italia. Renzi rilancia: “La mia agenda è la stessa di Blair”.
Alle ultime amministrative perdono entrambi, il premier e l’ex premier. Su Repubblica Ezio Mauro ammonisce Renzi: può ancora diventare il “papa straniero” della sinistra italiana, purché si attenga al “modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione”. Sembra però che l’alchimista Blair non sia stato così provetto nel miscelare valori e innovazione, se proprio nel nome dei valori oggi un gruppone di parlamentari laburisti si prepara a colpirlo con un’aspra mozione di censura.
Insomma gli acrimoniosi britannici si sono fatti tutt’altra idea di quella che ispira ai nostri media maggiori una devozione per Blair non del tutto razionale, o bizzarra quanto quei cargo-cult per i quali aborigeni del Pacifico scambiarono le ciurme di mercantili per creature soprannaturali. Da qui fraintendimenti quasi comici. Per esempio le politiche “no tolerance”, o “tolleranza zero”, invocate da qualsiasi politico italiano aspiri alla fama di intransigente (l’ultimo: “Il mio modello è la tolleranza zero”, annuncia Guido Bertolaso quando si candida a sindaco di Roma). Blair aveva importato la “no tolerance” dagli Strati Uniti, dove il sindaco di New York Rudolph Giuliani l’aveva applicata con apparente successo. La sperimenteremo in venti aree tra le più insicure, annuncia il suo governo nel 1998. Poi il silenzio.
Infatti i test andranno malissimo. La teoria è ottima ma per metterla in pratica occorre una polizia molto professionale e corretta, e una strategia complessa, altrimenti la “no tolerance” diventa un incitamento all’arbitrio poliziesco e innesca rivolte sociali (a suo modo lo confermano anche le recenti tensioni razziali negli Usa). Questa avvertenza però in Italia non arriva. Mentre “no tolerance” sparisce dalla retorica del governo Blair e anzi la sua polizia adotta una versione lasca del “multiculturalismo” per la quale piccole comunità fondamentaliste possono di fatto vivere secondo le proprie regole, cioè fuori dalla legge britannica, in Italia non c’è ministro dell’Interno che non proclami una qualche “tolleranza zero”. Poi nei fatti nulla accade.
Però almeno questo è molto blairiano: la politica come comunicazione. La politica con lo spin, l’effetto. Dove spesso c’è l’effetto però manca la politica.
Anche la responsabilità di Blair nell’invasione dell’Iraq è in essenza una storia di spin doctors, di stregoni della notizia. A Londra nell’autunno 2002 fui testimone della sapienza con la quale la joint venture tra governo Blair ed editoria alleata allestì la fabbricazione decisiva. Come conferma la commissione d’inchiesta, Blair aveva deciso di seguire Bush nell’avventura irachena già un anno prima dell’invasione, e per ragioni che non avevano a che fare con le armi di Saddam. Semmai con la sindrome di Suez, suggeriva lo storico Donald Sassoon.
Nel 1956 Francia e Gran Bretagna mandarono le truppe a prendere il controllo del Canale per sottrarlo a Nasser, che l’aveva nazionalizzato. Washington non gradì e di fatto costrinse francesi e britannici ad una umiliante ritirata. Da allora la regola aurea della politica estera britannica vuole che Londra sia sempre allineata agli americani nelle questioni cruciali. Ma Blair non poteva rivelare questa subalternità all’opinione pubblica.
Occorreva convincerla che la guerra programmata dai neocons fosse effettivamente necessaria. Il 2 settembre 2002 il governo britannico diffuse un rapporto nel quale si sosteneva, con studiata vaghezza, che Saddam aveva armi di distruzione di massa ed era in grado di usarle in 45 minuti. L’indomani la prima pagina del Sun gridava che a Saddam sarebbero bastati 45 minuti per sterminare la popolazione della Gran Bretagna (con l’atomica, era implicito).
Dimenticando questi trascorsi la settimana scorsa il Sun ha azzannato Blair con articoli feroci, ed è stato il contrappasso a conclusione di una carriera politica cui ha giovato oltremisura la benevolenza di quel giornale e del suo editore, il potentissimo Rupert Murdoch. Una storia esemplare che comincia nel marzo 1997 con un titolo a tutta prima pagina, The Sun backs Blair, Il Sun appoggia Blair. All’epoca era davvero una notizia clamorosa, il giornale aveva 10 milioni di lettori complessivi e da vent’anni sosteneva la destra. Nelle elezioni del 1992 aveva dato un contributo decisivo nel sovvertire i pronostici che davano per sicura la vittoria del Labour e se ne era vantato con un titolo tronfio entrato nella storia britannica: diceva all’incirca “le elezioni le ha vinte il Sun”.
Avvicinandosi le elezioni del 1997, Blair ritenne prudente incontrare l’editore del quotidiano, Rupert Murdoch. I due capirono subito di avere interessi coincidenti. Blair divenne primo ministro, Murdoch ebbe la possibilità di entrare nel circuito televisivo e di costruire una flotta mediatica che nei momenti cruciali si è sempre schierata con l’alleato. Col tempo il sodalizio divenne un rapporto personale, Blair fu padrino di battesimo di una figlia del magnate (sulle rive del Giordano, come Gesù: è gente che pensa in grande) ed era di casa dai Murdoch. Poi la penultima moglie dell’amico si innamorò di lui, colpa che Blair finora ha pagato assai più dell’invasione dell’Iraq: da un paio di anni proprio l’informazione che lo ossequiava gli digrigna i denti come un tempo faceva con i suoi avversari. “Una bestia feroce che sbrana persone e reputazioni”, l’ha definita lui.
Di sicuro la bestia non ama interrogarsi sul proprio ruolo neppure in Gran Bretagna, dove non manca il giornalismo libero. Eppure la parabola di Blair, eroe di carta stampata, si conclude con una domanda che non andrebbe evitata: cosa sia democrazia nel tempo del capitalismo di relazione, quando la fabbricazione del consenso dipende dallo scambio di favori tra politici ed editori dagli interessi molteplici; e la decisione più grave che una società sia chiamata a prendere, entrare o no in guerra, è presa in segreto da un minuscolo gruppo di persone che poi intorta la popolazione attraverso il giornalismo cortigiano.
di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 18/7/2016