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 2016  luglio 16 Sabato calendario

GENITORI CHE TIFANO TROPPO

In Inghilterra durante le partite dei bambini distribuiscono lecca lecca ai genitori. Per farli stare zitti. Le chiamano Silent Sundays, le domeniche silenziose. E dei fine settimana in silenzio ci vorrebbero anche da noi, visto quel che succede a bordo campo quando mamma e papà aprono bocca: insulti agli avversari e agli arbitri, contestazioni all’allenatore, spintoni, schiaffi, risse. L’apice della follia si toccò qualche anno fa a Terracina, quando un padre estrasse la pistola e la puntò sui genitori della squadra avversaria. Malcostume in aumento, a leggere le cronache dei campionati giovanili. Prendiamo i primi sei mesi del 2016. Gennaio: Modena, rissa fra genitori, due di loro interdetti dai campi per un anno. Febbraio: Olbia, baruffa tra papà e dirigenti sportivi. Marzo: Inveruno (Milano), allenatore picchiato da quattro genitori. Aprile: Pioltello (Milano), dopo gli scontri porte chiuse per le gare casalinghe di due squadre. Maggio: Biella, gazzarra scatenata dai genitori e gara sospesa. Giugno: Perugia, finale terminata a urla e schiaffi.
«È una tendenza preoccupante». «Un tema caldissimo ». «Una piaga». Le associazioni sportive - Coni e Figc in testa - fanno a gara a chi stigmatizza di più. Ma la questione è: come ci siamo arrivati? Cosa può trasformare un’amorevole mamma in un esagitato tifoso da curva sud, o un padre responsabile in un ultrà picchiatore? «È un fenomeno nuovo e i motivi sono due», spiega Roberto Mauri, psicologo, formatore sportivo per il Centro Sportivo Italiano. «Lo sport negli ultimi anni ha cambiato dna, è diventato sempre più business, spettacolo, evento sociale, quello che viene chiamato sportainment. Nel frattempo è cambiata la famiglia, la natalità si è contratta e molti genitori oggi hanno un solo figlio. Detto brutalmente, hanno un solo colpo in canna e non possono sbagliarlo. Così su quell’unica creatura, proiezione sociale di madre e padre, s’investe emozionalmente tantissimo. Questi due elementi insieme sono nitroglicerina». Dell’argomento Mauri si occupa da anni, nel 2013 ha scritto un libro che continua a presentare in giro per l’Italia, Genitori a bordo campo (In Dialogo editore): «I Silent Sundays», aggiunge lo psicologo, «hanno dimostrato che senza urla i bambini giocano meglio, più sereni e concentrati. E lo farei sapere anche a tanti allenatori».
Pasolini aveva ragione, nella nostra epoca il football è rimasto l’ultima vera rappresentazione sacra. Rito quasi religioso, esaltazione collettiva, metafora della vita (e della guerra), alimenta identità e assorbe frustrazioni. Ma quando gli adulti portano tutto questo nel terreno di gioco dei bambini, commettono un peccato grave. «A volte, guardando le partite di mio figlio», confida l’ex calciatore Damiano Tommasi, «ho come la sensazione che il mondo dello sport giovanile, soprattutto del calcio, sia fatto dagli adulti a uso degli adulti. Manca la prospettiva dei bambini, ridotti a semplici comparse». Un mondo dai valori ribaltati dove il protagonista è il genitore con le sue urla, tensioni e aspettative, con la sua visione esasperata della competizione e della sconfitta come complotto o colpa di qualcun altro. «Avrò avuto 14 anni», ricorda Tommasi, oggi presidente dell’Associazione italiana calciatori. «Durante una partita, a dieci minuti dalla fine, l’allenatore chiese a un mio compagno seduto in panchina di entrare in campo. Lui si rifiutò, papà da dietro la rete gli urlava «Non entrare! O ascolti l’allenatore o ascolti me». Un episodio che non ho mai dimenticato».
La chiamano “sindrome dell’atleta frustrato”. Quella di chi cerca una rivincita attraverso il figlio visto come prolungamento di sé, proietta desideri insoddisfatti motivandolo esageratamente, fino all’umiliazione. È il caso del tennista André Agassi, che ha raccontato nel bestseller Open le pressioni subite dal padre. Mike il tiranno, ex pugile mediocre, obbligava il figlio a lunghe ore di allenamento quotidiano e nel suo libro-risposta Indoor scrive che non se n’è pentito: «Sì, sono stato duro e severo», ha detto a Emanuela Audisio su Repubblica. «Ma gli allenatori amano per contratto. Io ho amato Andrè per sangue e l’ho aiutato a vincere. Il mio peccato resta quello». Certo, a volte si esagera, come quel papà di Treviso che anni fa costringeva il figlio nuotatore 14enne perfino ad assumere creatina e aminoacidi: denunciato dagli amici, ha patteggiato due anni di reclusione e il ragazzo è stato affidato ai servizi sociali. Le conseguenze possono essere gravi. Iperprotetto “per il suo bene”, il giovane non riconosce gli errori, non cresce e non matura, sentendosi accettato solo se vincente. Lo sport diventa fonte d’ansia e paura: un obbligo che porta esasperazione, ribellione, abbandono precoce dell’attività. «Tranquillo, a motivare il ragazzo ho pensato io: gli do 20 euro a ogni gol». La frase è stata pronunciata davvero, insieme ad altre centinaia sullo stesso tono raccolte due anni fa da Fabio Benaglia nel libro Mio figlio è un fenomeno (Il Ponte Vecchio). Un bestiario da cabaret, se non fosse tutto vero.
Esempi? Un papà all’allenatore: «Cassano all’età di mio figlio non era così forte». Un altro papà: «Gli ho parlato dopo l’espulsione: gli ho fatto capire che se l’arbitro è un cretino non è colpa sua». Una mamma: «Ieri sera è tornato a casa e ha starnutito quattro volte di fila. No, voglio dire: ma cosa gli fate?». Un’altra: «Dove la trovo una fascia di capitano? Volevo comprarne una a mio figlio. Ho provato in cinque negozi...». Una mamma digitale: «Su Youtube ho visto Messi che palleggiava con un limone, una mela e una banana. In allenamento voi quello non lo provate mai?».

Nasce tutto da una telefonata. Fabio Benaglia, giornalista sportivo del Corriere di Romagna, ogni martedì compila la seguitissima pagina sul calcio giovanile. Un giorno lo chiama un allenatore, perché il nome del ragazzo che ha fatto gol è stato pubblicato scorretto. «La prossima settimana rettifico» lo rassicura Fabio. «Non hai capito, devi farlo subito», risponde l’allenatore agitato, «altrimenti con la mamma ci parli tu!». A distanza di due anni Fabio non dimentica la scena: «Era un allenatore tosto, un rappresentante sindacale, aveva denunciato brogli e litigato con tutti. Eppure era letteralmente terrorizzato da quella mamma. Come molti degli allenatori che ho intervistato, ha preteso l’anonimato». Vanno capiti: per loro è dura lottare coi genitori, dura non farsi giudicare solo per le vittorie. Vai a spiegare che sei anche un educatore, che devi insegnare il rispetto, l’umiltà, il sacrificio. Allora quando proprio non ne puoi, come successe al grande Nils Liedholm, quella brutta frase prima o poi ti scappa: «Sì, vorrei proprio allenare una squadra di orfani». Perché lo sport ai piccoli fa bene, nessuno può negarlo. Ma per loro è essenzialmente divertimento. «Come spiegare cos’è la felicità a un bambino? Gli darei un pallone per farlo giocare», diceva Dorothee Solle, teologa e scrittrice citata da Eduardo Galeano. La loro felicità passa per la socializzazione, il rispetto delle regole, l’aumento dell’autostima, non certo per l’obbligo di realizzare i sogni dei genitori. «Anche mamme e papà», spiega Roberto Mauri, «andrebbero educati, allenati». Forse è per questo che online proliferano i decaloghi. Ne ha scritto uno il Rugby Toscana, uno l’ex cestista Mabel Bocchi, uno la Federazione medico sportiva italiana, un altro Gianluca Zambrotta insieme al centro Eracle. Regole ovvie, ma - si sa - repetita iuvant: rispettare l’autorità dell’allenatore e dell’arbitro, nella vita esistono anche le delusioni, evitare giudizi e rimproveri, è il bambino che sceglie il suo sport... «Io aggiungerei che nello spogliatoio la patria potestà è sospesa», precisa Mauri, «e subentra quella dell’allenatore e dell’arbitro. Basta mamme che entrano nello spogliatoio fin sotto la doccia, basta papà che portano le borse dei figli e gli fanno da assistente tuttofare!». Basta soprattutto credere che il calcio sia tutto, nella vita. Come un giorno disse Trapattoni, «il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticato che è gonfio d’aria».