Enrico Mannucci, Sette 15/7/2016, 15 luglio 2016
LE BISTECCHE DI LE GOFF, I MACCHERONI DI AUGÉ... ANCHE L’INTELLETTUALE MANGIA
«Rimase di stucco Jacques Le Goff quando arrivò al Coco Lezzone da via del Purgatorio. Il Coco Lezzone è una trattoria fiorentina nelle stradine del centro storico, a due passi da via Tornabuoni: Franco Paoli, il proprietario oggi scomparso, frollava anche una quarantina di giorni le sue bistecche portandole alla perfezione. Per l’insigne autore della scuola delle Annales, la meraviglia veniva dal fatto che in quel periodo stava lavorando proprio a L’invenzione del Purgatorio, una delle sue opere maggiori. Deliziato a Firenze, Le Goff ebbe soddisfazioni a Roma. Dopo un pranzo da Mario in via della Vite, annunciò una specie di programma di ricerca: «Ora sono pronto per passare al Paradiso».
Invece, Giovanni Pugliese Carratelli, fra i maggiori storici italiani dell’antichità, aveva alcune remore a ostentare la passione per la cassata siciliana di cui, pure, era assai goloso. Allora, quando se la trovava davanti, mentre l’assaporava discettava dottamente con i compagni di tavola illustrando le influenze di origine oriental-bizantina riscontrabili negli elementi che la compongono: canditi, uvette, scorzette di agrumi...
Quanto ad Hans Gadamer, coltivava un rito irrinunciabile nei soggiorni partenopei, quando insegnava all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Adorava, infatti, il caffè alla napoletana, addirittura si faceva portare in tavola la macchinetta una volta rovesciata e la distillava a lungo, goccia per goccia, commentando: «È proprio come la storia, non finisce mai».
Guida e commensale di questi e altri esimi intellettuali è stato Tullio Gregory, pilota perfetto per itinerari cultural-culinari. Il curriculum di Gregory è sterminato: professore di storia della filosofia alla Sapienza, ha insegnato alla Sorbona ed è membro di importanti organismi culturali internazionali, all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, la Treccani, ha diretto diverse opere e fa parte del Comitato scientifico. In campo non strettamente filosofico, ha fatto valere le sue competenze anche qui. La definizione di pagliata (in romanesco, comunemente, “pajata”): nel Dizionario Enciclopedico Italiano del 1958 è «la parte più alta degli intestini del vitello di latte». Invece, nel Vocabolario della Lingua Italiana di Aldo Duro la definizione è completata e modificata così: «La parte più alta... degli intestini del vitello di latte, più raram. di manzo giovane, con il proprio contenuto di chimo, di consistenza cremosa». La seconda opera esce nel 1989, e Gregory, pignolo, non nasconde di aver messo mano a rettificare questa voce.
Stiamo attraversando tempi in cui sempre più spesso si confondono gli chef con i maîtres à penser, o meglio, sono loro – gli “spadellatori televisivi” come li ha definiti un insigne collega – ad autoassurgersi orgogliosamente in tale ruolo. Ebbene, può essere interessante un breve viaggio col professore attraverso l’alta cultura internazionale esplorando gusti e preferenze. Come dire: “intellos” e “Stelle Michelin”.
Convivi mai casuali, quelli organizzati da Gregory: «Ho bisogno di ritrovarmi in luoghi, non in “non luoghi”», osserva parafrasando Marc Augé – l’etnologo e antropologo teorico dei “non luoghi” della modernità: aeroporti, centri commerciali ecc. – con cui, pure, ha diviso la tavola: «Augé ha scritto Un etnologo al bistrot, lui è disponibile a tutte le avventure, quindi non disdegna anche i “non luoghi». In genere, è curioso, e insiste a Napoli per avere la frittata di maccheroni”.
La società divisa dallo spiedo. In genere, invece, Gregory è rigoroso e ci tiene ad approfondire. La Taverna Flavia è un altro dei suoi ristoranti romani prediletti. Ci capitava con Marc Fumaroli: «Lui amava molto i primi. Glieli facevo provare in tutte le nostre migliori versioni: gricia, vongole, matriciana... Allora, si divertiva molto a ragionarci sopra, contrapponendo la cultura italiana, comunale e articolata, a quella francese, centralizzata».
Ma torniamo a Le Goff. Una volta, andarono insieme in una trattoria vicino a Spoleto: «Fu l’occasione per ricostruire i diversi modi di cottura nel Medioevo. Che non sono molti: due, entrambi sul fuoco del camino. “Assa”, per usare il termine latino, ovvero cotto allo spiedo, è quello dei signori: hanno i servi a disposizione che lo girano per ore. Sempre restando al latino, “Elixa” è quello del popolo: cotto nel pentolone dove si mettono verdure e carni povere. Lasciando tutto a cuocere mentre si va nei campi a lavorare».
Potrebbe essere questo il filo conduttore per l’impegno che Gregory deve affrontare in vista di settembre: quando è in programma a Modena il Festival della Filosofia. Tocca a lui, ora, impostare i menù che l’accompagneranno in diversi ristoranti cittadini, in chiave col filo conduttore dell’evento, stavolta dedicato all’’agonismo’.
La terra del Festival, ovviamente, ispira il professore: «Da queste parti si faceva il cotechino a fette fritto, servito con zabaione caldo: un piatto ipercalorico ma eccellente». Puntava alto anche un commento di Jean-Robert Armogathe, teologo, storico e oratore nella cattedrale di Notre Dame, dopo un pranzo romano alla Taverna Flavia, a base di tartufo: «È la più alta teofania». Su un albo di dediche che Gregory conserva, Armogathe aggiunge: «A Mario, una formula episcopale (e culinaria): Ad multos annos!».
Molto più terrena la reazione, in un’altra occasione gastronomica, di Mario di Biagio De Giovanni. Più o meno: «Grazie a Tullio, una serata che doveva essere angosciosa (morte del Pci e “rinascita” di una massa informe) è diventata, invece, indimenticabile)». Era il 14 novembre 1989.
Restano memorabili, per Gregory, i pranzi (però lui, oggi, preferisce rinunciare al desinare per la cena) organizzati al Coco Lezzone fiorentino con Paolo Galluzzi, direttore del Museo di Storia della Scienza, studioso di Galileo e gran collezionista di grandi bordolesi che non esitava a portare sul tavolo della trattoria. Uno dei commensali, spesso, era Luigi Firpo, anche lui cultore della buona tavola e depositario dei migliori indirizzi per gustare il fritto alla piemontese: “Cinque portate. E ognuna con tre qualità diverse. Il “luogo” era Ristoro Villata.
Il fritto era anche una grande passione di Eugenio Garin: «Viveva in simbiosi con la moglie che controllava la sua dieta, ma quando era solo a Roma o a Napoli chiedeva solo quello». Altri commensali di Gregory sono stati Jean Starobinski – ricordando i pranzi romani ha lasciato scritto: «Celebrare Rousseau ogni anni, sì, ma all’Accademia Gregoriana» – ed Ernst Gombrich («Si notava la sua grande esperienza europea, non aveva dogmi a tavola»). Ma con Fernand Braudel la dimestichezza culinaria arrivò alla sfida: «L’autore di Mediterraneo era fanatico del couscous. Sosteneva che a Parigi il migliore si trovasse in un certo ristorante. Io preferivo un’altra trattoria. Scommisi con lui e non contestò il mio parere».
Sono ricordi di piccole soddisfazioni davanti a un presente non troppo consolante: «L’omologazione dei gusti dovuta ai fast food e alla moda dei cibi pronti è segno di decadenza della civiltà occidentale. La cucina nasce al mercato, non al supermercato». Sentenza categorica. Ma ancor più definitivo è un desiderio ormai irrealizzabile: «Tagliare in tavola. “Porzionare” davanti ai commensali. Non lo fa più nessuno. I piatti arrivano dappertutto già preparati. Si potrebbe ricorrere a Hegel: “Il vero è l’intero”».
Intellettuali e cibo. Ribaltiamo per una volta l’approccio oggi consueto. Per esempio, Eric Hobsbawm, l’autore del Secolo breve, ovviamente preferiva i fast food (ma questa non è vera! È una battuta di chi scrive. Soltanto questa!).