Giacomo Papi, il venerdì di Repubblica 15/7/2016, 15 luglio 2016
Gianfranco de Bosio non ha niente di teatrale o istrionico, è elegante e cortese, in una parola, borghese
Gianfranco de Bosio non ha niente di teatrale o istrionico, è elegante e cortese, in una parola, borghese. La sua casa in centro a Milano potrebbe essere quella di un medico. Per trovare tracce della sua vita – manifesti, premi, libretti d’opera – bisogna essere attenti e curiosi. Il maestro Gianfranco de Bosio – 92 anni il prossimo 16 settembre – è una delle figure centrali del teatro italiano del secondo Novecento. Dopo la Resistenza a Verona, fondò il Teatro dell’Università di Padova, fu decisivo nella riscoperta del Ruzante, e diresse lo Stabile di Torino portando Brecht in Italia, collaborò con il Piccolo Teatro, dove insegna tutt’ora, scrisse e diresse film e sceneggiati televisivi – Il terrorista con Gian Maria Volontè nel 1963, La Betìa con Nino Manfredi nel 1971 e nel 1974 la mini serie Mosè con Burt Lancaster e sceneggiatura di Anthony Burgess, quello di Arancia Meccanica – fu sovrintendente dell’Arena di Verona e fece la regia dell’Aida più vista di sempre, 2 milioni e mezzo di spettatori, sulla base delle indicazioni di regia originali di Verdi. La prima cosa che stupisce nella sua autobiografìa – La più bella regia. La mia vita – è che eravate tutti giovani. Lei, Giorgio Strehler, Paolo Grassi, a trent’anni occupavate già posti importanti. Oggi non sarebbe possibile... «È un’intuizione fondamentale per capire quel periodo. Quelli della mia generazione che sopravvissero alla guerra, a 20 anni avevano un’esperienza incomparabile con quella dei ventenni di oggi. Avevamo combattuto, rischiato la vita e visto morire. Entrai nella Resistenza a 19 anni, il mio comandante era Otello Pighin, una figura centrale per me a cui dedicai II terrorista con Gian Maria Volontà, forse il mio film più amato. In Italia ci fu una guerra civile, come in Spagna. Soltanto sparute minoranze intellettuali erano contro il fascismo. Vedere l’entusiasmo degli italiani per l’entrata in guerra e la facilità con cui cambiarono idea fu uno shock decisivo per decidere come avrei vissuto». Questo per quanto riguarda i giovani. Ma forse anche gli anziani del dopoguerra erano più disposti a lasciare spazio di quanto siano oggi... «Non so se da parte degli anziani ci fosse più disponibilità, certamente c’era più necessità. Lei deve tenere presente che era crollato un ventennio e una serie di autorità e funzioni andavano colmate. Il risultato è che per i giovani sopravvissuti si aprivano tante possibilità». Infatti nel 1945 il Cnl la mandò a Roma come delegato dei giovani democristiani del Nord Italia anche se lei non era democristiano, e neanche cristiano. «È così, e a Roma conobbi e fui battuto da Giulio Andreotti, che aveva 26 anni e già si muoveva benissimo. Fu un incontro importante perché mi insegnò come si vince politicamente e che la politica non era la mia strada. Il mio giudizio su Andreotti è sostanzialmente positivo, era un uomo intelligente e generoso, che nella mia carriera mi aiutò molto, per la censura e per i finanziamenti. Certo, intorno aveva sempre i suoi adepti, quelli puliti e qualcuno sporco. Come regalo di nozze mi mandò un candelabro». L’Italia del secondo Novecento è descritta come un Paese profondamente diviso, tra comunisti e democristiani, intellettuali impegnati e cultura bassa... Lei invece aveva buoni rapporti con Andreotti, ma produceva spettacoli del Ruzante quasi scomunicati dalla chiesa o di Bertolt Brecht. La tv di Stato incaricò lei, un regista soprattutto teatrale e di sinistra, di fare uno sceneggiato su Mosé e lei, senza paura di contaminarsi, dal teatro passò alla televisione. «A spingermi è sempre stato il bisogno di sperimentare le varie linee artistiche. Non sono credente, ma considero la Bibbia uno dei capolavori della cultura occidentale, come l’Odissea e l’Eneide. Ma era un altro mondo, il ricordo della guerra civile era ancora forte, e la vicenda di Mosé si inseriva perfettamente nel Dopoguerra europeo. Fu qualcosa di unico, oggi impossibile, arrivò al 94 per cento di share (allora c’erano due canali...). Durante le riprese in Israele scoppiò la guerra del Kippur. Fu Burt Lancaster a chiamarmi una mattina: "Gianfranco, the war". La Rai si spaventò e decise di spostare le riprese in Spagna, ma io e il produttore inglese ci opponemmo perché andava girato in Israele. Per me significò ritrovare il mondo del 1943-’45, un’esperienza terribile e formativa a cui, ancora oggi, non posso sfuggire...». Lei ha capito che cosa spinge da una parte o dall’altra la storia? «Fu il conformismo a fare il fascismo. Il conformismo è una forza inalterabile della storia. Il conformismo è eterno. Lavorando con la Scuola del Piccolo, ho l’impressione che i giovani manchino di cultura storica, però, anche se sono ignoranti, sono ansiosi di conoscere. Non sono pessimista e non saprei dire se siano conformisti. Ma conoscere la tragedia della storia durante l’adolescenza, è una disgrazia che ti forma. Conoscere la ferocia degli uomini è importante perché la ritroviamo sempre, ai tempi di Mosé e pochi giorni fa a Dacca, una cosa terribile. Il mio primo film, Il terrorista, ha un titolo volutamente ambiguo perché era la parola con cui i fascisti bollavano gli oppositori, ma furono loro a salvare l’Italia». Infatti il mito del terrorismo italiano degli anni 70 fu proprio la Resistenza... «Fui avvicinato spesso da gruppi estremisti, mi dissero anche che il mio film veniva proiettato clandestinamente, ma a quei ragazzi, alcuni dei quali erano persone pulite, ho sempre detto che se non c’è prospettiva è inutile battersi, e la prospettiva non c’era. Ma è una dialettica che si dissolse con il crollo del comunismo». Nel libro racconta un suo viaggio in Germania Est nel 1961... «Si respirava tensione, ci si sentiva sotto costante sorveglianza, era molto peggio che in Ungheria, Cecoslovacchia o Urss. Incontrai Helene Weigel, la vedova di Brecht, per preparare la regia dell’Arturo Ui a Torino. Era un’attrice magnifica ma, forse perché costretta, non so, era sicura che il comunismo sarebbe stato il futuro». Però, scrive nel libro, si faceva pagare su un conto estero... «Sì, i grandi incassi dell’Arturo Ui li mandavano all’editore Suhrkamp di Francoforte che li spediva in Svezia, altrimenti il Partito avrebbe trattenuto l’80 percento e Helene preferiva evitare». Mentre racconta del conto estero della moglie di Brecht,entra sua moglie Marta Egri. Appena esce, de Bosio sorride. «Mia moglie ha scritto il capitolo più bello del libro, quello su suo padre, Ernö Egri Erbstein, che fu l’allenatore del Grande Torino e morì a Superga nel 1949. Con Marta ci conoscemmo una sera nel 1961 a Torino e fu un amore improvviso. Lei è nata in Ungheria, dove patì le persecuzioni antiebraiche, poi col padre sono scappati in Italia. Quando la conobbi era sposata in America. Dopo poche settimane volò in Alabama per il divorzio rapido. Ci sposammo nella primavera del 1962, sono passati 54 anni e siamo ancora qui... È una storia molto romantica, una lunga storia bellissima». Giacomo Papi