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 2016  luglio 14 Giovedì calendario

Storia del bikini

È un glorioso tramonto di metà luglio, a Sestri Levante. Le famiglie sono già a far la doccia, qualche turista francese scatta selfie a ripetizione. Gli ambulanti nordafricani cedono il posto ai primi venditori serali di rose. Si chiudono i cancelli compresi quelli dei Bagni Lido dove campeggia Enrico Bixio, detto «Cèrule», figura storica del borgo, proprietario dei Lido e capo bagnino da 60 anni, festeggiati da qualche settimana. Se c’è uno che sa come le donne si sono svestite in spiaggia dal Dopoguerra a oggi, è lui: «Il primo bikini è arrivato nel 1958. Se li mettevano le olandesi, le ragazze che abitavano nei bungalow del villaggio vicino alla stazione. Erano giovani e più libere delle italiane. Qui per poco mi buttano giù la ringhiera: eran saliti perfino sui tetti per vederle. Sulla licenza per la concessione dei bagni c’era ancora scritto che bisognava far osservare “il comune senso del pudore”. Dopo qualche anno di topless, anche il cartello sul pudore sparì».
Del battibecco online di pochi giorni fa tra Emma Marrone e Selvaggia Lucarelli per stabilire se una foto in bikini «sia più civetteria o più cattiveria» o del fatto che il post più sexy del 4 luglio 2016 negli Usa sia quello di una 49enne in bikini (nello specifico Halle Berry, che ha festeggiato l’Independence day su Instagram con mezzo milione di «follower» che amano ancora le sue curve segnate dal due pezzi) insomma, delle dimostrazioni social quotidiane che, nonostante abbia appena compiuto 70 anni, il bikini sembri uno scandalo appena nato, Enrico Bixio detto «il Cèrule» non ne sa nulla. Eppure i fatti stanno così: l’invenzione di Louis Réard, l’ingegnere parigino che nel luglio 1946 lanciò il costume da bagno più rivoluzionario del mondo ispirandosi al razionamento postbellico, regge ai segni del tempo e dei media. Tanto per dirne una, Sky ci ha appena costruito attorno un fashion talent girato tra Ibiza e Formentera, dal titolo Bikini Island, in cui otto splendide modelle presentate da Cristina Buccino si mettono alla prova su un catamarano.
Alla faccia di Micheline Bernardini, che modella non era, ma ballerina di burlesque e spogliarellista al Casino de Paris. E che, dopo i dinieghi di tutte le modelle rispettabili dell’epoca, fu l’unica ad accettare nel 1946 l’offerta di Réard di farsi fotografare alla Piscine Molitor con quattro triangolini di stoffa indosso. Per lanciare il bikini e dimostrare alle donne del pianeta che potevano cambiare il look e non solo: Réard lo battezzò «bikini» immaginando che quel costume da bagno avrebbe cambiato i costumi con la stessa violenza delle testate nucleari che gli Stati Uniti avevano appena sperimentato sull’omonimo atollo del Pacifico.
La Bernardini ricevette 50 mila lettere dai fan, il Vaticano dichiarò il bikini «peccaminoso» e Italia, Belgio, Spagna, Portogallo e Australia lo bandirono dalle spiagge. «Il bikini ha cambiato l’Italia» commenta il re dei paparazzi Rino Barillari, anche lui 70 anni di cui 50 spesi a immortalare la dolce vita dei vip. «Ricordo i vigili in spiaggia a misurare i centimetri di stoffa e le donne a fare il bagno con la sottana. La catenina al piede, il trucco, il bikini: da noi erano i simboli delle poco-di-buono, li mettevano le americane. Poi le foto delle star ruppero il muro della censura: Brigitte Bardot sull’Appia antica fotografata da Marcello Geppetti, in piscina. Ci fece impazzire. Ursula Andress, ovviamente. Ma anche Daniela Bianchi, Elsa Martinelli, Valeria Ciangottini. Con eleganza abituarono le italiane a esporsi. E le foto in bikini cambiarono la mentalità del Paese. Ma per farle ti toccavano cinque o sei ore sotto il sole, ti bruciavano le spalle La mia foto in bikini più bella? Marisa Solinas, la “Venere tascabile”, in terrazza in bikini con la sorella. Quegli scatti m’hanno fatto guadagnare parecchio».
E così negli anni Sessanta il bikini divenne uno degli strumenti di liberazione della donna: fece a pezzi il Codice Hays (il «production code» che prende il nome dal suo creatore Will H. Hays, il potente direttore generale delle Poste statunitensi, che dal 1934 al 1967 ha governato la produzione cinematografica americana), squagliò i dettami della censura e creò scandali a ripetizione, spesso manovrati a regola d’arte, fino ai giorni nostri. «Nonostante i tempi incerti, su certe cose si può ancora contare. Una di queste è che ogni volta che una starlet ha una carriera da lanciare, lo farà attraverso un bikini»: così il Daily Telegraph ha aperto la sua copertina di celebrazione del due pezzi. A significare che, finita la repressione vittoriana o cattolica, si è fatto largo lo spettro del corpo perfetto, represso stavolta da chirurgia plastica, diete e fotoritocco per risultare accettabili alla «prova-costume». Del resto, «Are you beach body ready?» urlava il gigantesco annuncio pubblicitario di un integratore alimentare in Inghilterra e poi negli Usa un anno fa: una splendida valkiria in bikini sfidava gli sguardi collettivi come a dire «Se non sei come me, non uscire nemmeno di casa». Scandalo provocato e annuncio appena bandito dal neosindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan.
Perché il bikini è stato anche un’occasione per dimostrare che lo sguardo si può evolvere, l’ipocrisia domare: «Quando avevo dieci anni desideravo poter mettere il due pezzi, nonostante quello di sopra fosse assolutamente inutile» racconta Monica Lanfranco, femminista e autrice di Uomini che (odiano) amano le donne (Marea). «In fondo il bikini è un indumento intimo che, in un’ipocrisia collettiva, ci raccontiamo sia diverso dall’intimo tradizionale. Al mare in realtà tutti sono seminudi, le donne in reggiseno e mutande e gli uomini in mutande. Ma per convenzione il bikini ci salva dal sentirci inopportunamente svestite. Per questo penso che il due pezzi sia stato ben più rivoluzionario rispetto alla mitica minigonna, tant’è che ancora oggi è un miraggio per le donne nei Paesi intrappolati nei fondamentalismi. Ha fatto bene anche allo sguardo maschile, perché i due generi hanno potuto mostrarsi nella versione più intima senza che questo sia un invito sessuale. Mi piacciono le anziane che l’indossano infischiandosene di chi sentenzia che a una certa età si deve passare all’intero».
Non sempre funziona: ad anni di distanza dalla foto che ha fatto il giro del mondo e che ritrae Helen Mirren in bikini, con un corpo statuario, l’attrice inglese dichiara che sarà perseguitata per sempre da quell’immagine e dalle sue conseguenze. La Lady del cinema britannico trasformata, a 63 anni, in un sex symbol da copertina sbotta: «Maledetto bikini. E poi è una bugia: io e il mio corpo non siamo così».
Ma in un’epoca in cui, come dice Barillari, «è scomparso il concetto di ricordo e mettiamo in rete ogni giorno centinaia di foto dei nostri sederi» come può un bikini stupire ancora, da Fregene a Saint-Tropez?
«C’è da domandarsi se la società non abbia bisogno di una strategia della moda più avanzata o di qualcosa d’altro per arginare conflitti di genere e di sesso. Da tempo il bikini è innocuo e anzi si avvia ad esserlo anche la sola mutandina, persino prosciugata in tanga» sostiene il sociologo Alberto Abruzzese. «La sua ragione più forte è semmai quella di marcare la differenza tra le condizioni fisiche, gli stili di vita, delle donne in grado di indossarlo e quelle che invece non possono permetterselo».
Differenze in termini di ceto, aggiunge Abruzzese (un bikini costa poco ma, per servire davvero, ha bisogno di un ambiente economico e culturale adeguato); per distanza dai canoni estetici dominanti, e dunque anche simbolici e affettivi; oppure e ancor più crudelmente per età, deperimento della carne. «Insomma» conclude il sociologo «il bikini è la divisa di un sistema di vita, con ginnastica, diete, massaggi, tempo libero, vacanze, turismo, spettacolo; ma anche di un sistema di valori contro condizioni di vita “minori”, che non fanno moda eppure ne costituiscono il carburante universale».
Ormai è sera, ai bagni Lido, e su lunghi fili appesi fuori dalle cabine dondolano pigramente decine di bikini stesi ad asciugare. Domani è un altro giorno di libertà in due pezzi: la migliori celebrazione, per quei 76,2 centimetri di stoffa e per il loro geniale inventore.