Andrea Di Turi, Avvenire 13/7/2016, 13 luglio 2016
GLI SCAMBI AD ALTA FREQUENZA CHE DROGANO IL MERCATO
Il 6 maggio del 2010 è una data che gli operatori di Borsa di mezzo mondo, e non solo, non dimenticano. È passata alla storia come il giorno del ’ flash crash’, quando i mercati azionari statunitensi, e segnatamente l’indice Dow Jones, persero oltre il 10% in pochi minuti, per poi recuperare rapidamente nella stessa giornata. Un fatto quasi inspiegabile, almeno agli occhi del cittadino comune che forse ha ancora in mente, quando pensa alle dinamiche con cui funzionano i mercati finanziari, l’epoca delle grida, le contrattazioni che avvenivano a chiamata. Un fatto, però, che non passò inosservato a chi ha il compito di vigilare sul buon funzionamento dei mercati, come la Sec ( Securities and Exchange Commission) negli Stati Uniti o la Consob in Italia. I l sospetto, poi confermato dalle ricostruzioni, fu che in quel ’crollo’ fossero pesantemente coinvolti gli operatori Hft ( high frequency trading), il trading ad alta frequenza. La Consob, in un discussion paper del 2012 (disponibile su www.consob.it), definisce l’Hft come una modalità di effettuare le negoziazioni che si basa sull’impiego di algoritmi che consentono di acquisire, elaborare e reagire alle informazioni di mercato con una velocità elevata (siamo nell’ordine dei millisecondi). Fra le caratteristiche che li contraddistinguono vi sono: l’utilizzo di sofisticati supporti informatici; l’elevato numero di ordini immessi nell’unità di tempo (anche diverse migliaia al secondo) e il pure elevato rapporto ’ order-to-trade’ (cioè tra gli ordini di compravendita immessi e quelli, di molto inferiori, effettivamente eseguiti); il fatto che le posizioni (di acquisto o di vendita) sono generalmente chiuse a fine giornata e nel corso della stessa il periodo medio di detenzione dei titoli è tra qualche secondo e alcuni minuti; gli esigui margini di profitto per singola transazione, che implicano elevati volumi di negoziazioni. Da parecchi anni le autorità di Borsa di diversi Paesi, fra cui l’Italia, hanno avviato riflessioni, e adottato i primi provvedimenti, preoccupate dalla possibilità che la diffusione nell’utilizzo di Hft possa influire negativamente sul buon funzionamento dei mercati. Anche perché in un decennio gli Hft sono diventati degli autentici mattatori: si stima intercettino tra il 20% e il 40% degli scambi sulle piazze finanziarie europee, più del 50% e per alcuni fino al 70% negli Stati Uniti. I n un recente report di Deutsche Bank, però (’ Highfrequency trading. Reaching the limits’, consultabile su www.dbresearch.com), si prevede che per gli Hft i ’ glory days’, i giorni di gloria siano destinati a finire presto. Senza dimenticare che Deutsche Bank è stata appena indicata dal Fondo Monetario Internazionale come la banca, fra quelle mondiali di importanza sistemica, che ’sembra essere il più importante contribuente netto al rischio sistemico’ (’ Germany Financial System Stability Assessment’, scaricabile da www.imf.org), alcune domande s’impongono: sarà vero che gli Hft sono sulla via del tramonto? E, in ogni caso, dobbiamo augurarcelo o meno, nella prospettiva di mercati finanziari meno rischiosi, più stabili e più capaci di accompagnare un reale sviluppo?
A conforto delle sue previsioni, il report cita una serie di fattori concorrenziali: i costi delle infrastrutture di Hft sono sempre più elevati, la competizione è sfrenata, i margini di profitto si erodono. Soprattutto, però, si attende una stretta regolamentare, ad esempio con la Mifid 2, la nuova Direttiva Ue sui mercati degli strumenti finanziari che entrerà in vigore a inizio 2018. E che dovrebbe rendere un po’ più difficile la vita agli Hft, imponendo una serie di più stringenti requisiti, obblighi informativi, procedure, misure di disincentivo e limiti. Il che fa pensare che qualche valido motivo, per frenare gli Hft, ci sarà pure. Valeria Caivano, della Divisione studi della Consob, nel 2015 ha pubblicato uno studio che ha analizzato l’impatto dell’Hft sulla volatilità dei prezzi sul mercato azionario italiano tra 2011 e 2013: «Premesso – spiega – che il fenomeno Hft è così complesso da non essere esattamente misurabile, il lavoro mostra che un incremento del livello di attività degli Hft nel mercato può determinare un significativo incremento della volatilità dei rendimenti giornalieri dei titoli interessati. Il legame è bidirezionale: l’Hft sembra più redditizio in contesti di elevata volatilità; e la presenza di un gran numero di Hft può amplificare movimenti anomali dei prezzi. In condizioni di mercato estremamente incerte, poi (dopo la Brexit, per dire, o con le note tensioni in atto sul settore bancario, ndr), la diffusione dell’Hft può portare ad amplificare le pressioni ribassiste fino a generare situazioni di disordine negli scambi».
La ritirata degli Hft paventata da Deutsche Bank, comunque, in Italia ancora non si registra. Anzi: l’ultima relazione annuale della Consob ha evidenziato come nel 2015 si sia verificata una crescita delle quote di mercato degli Hft dal 25,4% al 28,7% sul mercato azionario e dal 39,9% al 43,6% sui future sull’indice Ftse Mib (si arriva al 68,9% considerando i mini-futures). C’è chi sostiene che gli Hft garantirebbero maggiore liquidità sui mercati.
Alfonso Scarano, consulente finanziario indipendente molto ascoltato quando si prova a far luce sulle aree grigie della finanza, risponde: «Non è liquidità vera – afferma – ma fittizia e pericolosa: può inondare il mercato quando non ce n’è bisogno e desertificarlo quando servirebbe. Gli Hft, poi, discriminano fra gli operatori dotati degli ingenti capitali richiesti per lo sviluppo di queste piattaforme, spesso posizionate a poche decine di metri dai computer su cui i mercati si svolgono (in co-housing, ndr), e gli altri.
Inoltre, immettendo molti ordini che non vanno a buon fine, gli Hft occupano memoria e tempo di calcolo dei computer della Borsa, inducendo forti investimenti in infrastrutture informatiche. Che poi essi non contribuiscono a ripagare perché gli ordini effettivamente eseguiti (su cui si paga una commissione, ndr) sono pochi». I ntuibile l’opinione che hanno degli Hft i protagonisti della finanza sostenibile, che predilige orizzonti di medio-lungo periodo e un legame stretto con i fondamentali economici, che invece nel mondo Hft sembra a dir poco remoto: «Anche riguardo agli Hft – dice
Andrea Baranes, presidente della Fondazione culturale Responsabilità etica (Banca Etica) – si ripropone il tema del principio precauzionale, che esiste per ogni prodotto che si immette sul mercato ma non in ambito finanziario. Si tenga conto, inoltre, che queste attività si svolgono anche su mercati alternativi a quelli regolamentati, come le ’ dark pool’ cui accedono i grandi investitori, il cui nome (pozze nere) la dice lunga sulla loro trasparenza. Come nel caso dei paradisi fiscali, occorrerebbe un coordinamento fra le authority internazionali, che però manca, per affrontare le aree grigie dove le legislazioni nazionali non arrivano».
Oltre che dal punto di vista regolamentare, per porre un freno agli Hft si potrebbe poi lavorare in un altro senso: «Riteniamo – dice Francesco Bicciato, segretario generale del Forum per la finanza sostenibile – che si potrebbe incentivare la finanza sostenibile, i capitali ’pazienti’ che dispiegano i loro effetti più positivi sul medio-lungo periodo, la finanza agganciata all’economia reale e che soprattutto tutela di più chi investe. Lo abbiamo fatto presente in un recente incontro al Parlamento europeo, dove in riferimento al piano d’azione Capital Markets Union della Commissione europea abbiamo sottolineato l’opportunità di inserire i criteri Esg (ambientali, sociali e di governance, ndr) come fattori strutturali di uno sviluppo armonico della finanza. Con cui gli Hft non sono compatibili: sono finanza per la finanza’.
Tornando al cittadino comune, magari a questo punto un po’ disorientato, la domanda finale che potrebbe porsi è semplice: rispetto alla situazione che ha prodotto la crisi nel 2007-08, si è cercato di mettere un po’ le briglie alla finanza speculativa, Hft inclusi, e quindi ai rischi di una nuova crisi sistemica? A rispondere è ancora Scarano: «No – dice categoricamente –. I mercati di Borsa sono nati con la funzione di finanziare l’economia reale, ma sono diventati un’enorme bisca. Qui sta tutto il dramma: oggi la finanza sembra influenzare l’economia in modo molto negativo».