Alessandro Ursic, La Stampa 13/7/2016, 13 luglio 2016
GAS, RISERVE ITTICHE E PETROLIO: IL TESORO NASCOSTO DELL’ASIA
Sono, o almeno erano fino a pochi anni fa, solo isolotti disabitati in un mare che non ha mai avuto padroni. Eppure, attorno a quegli arcipelaghi contesi nel Mar cinese meridionale si gioca forse la battaglia geopolitica più importante del 21esimo secolo, in dispute che scaldano gli animi in almeno tre Paesi e rischiano di fare da scintilla per una guerra tra Usa e Cina.
È il «Calderone asiatico», come l’ha definito l’analista Robert Kaplan. Un’area dell’Oceano Pacifico attorno alla quale Pechino ha tracciato una «linea dai nove tratti» che scende come una lingua di bue grande undici volte l’Italia fino a lambire le coste di Filippine, Vietnam, Malaysia, Indonesia, Taiwan e Brunei, penetrando anche nelle loro «zone economiche esclusive».
Idrocarburi, riserve ittiche, controllo delle rotte commerciali sono le motivazioni economiche dietro la centralità dell’area. Oltre a enormi quantità di gas naturale, in quei fondali ci sono riserve comprovate di 7 miliardi di barili di petrolio; alcuni studi cinesi parlano addirittura di 130 miliardi di barili, tanto che l’hanno definito «il secondo Golfo Persico». Con l’overfishing ormai problema globale, quelle acque rimangono tra le più pescose. E poi è un crocevia del commercio: una petroliera su due al mondo passa di là, così come 5 mila miliardi di dollari in merci all’anno.
Nei Paesi che sentono il fiato del Dragone sul collo, l’assidua penetrazione cinese è paragonata alla prepotenza del bullo di quartiere che si appropria delle cose non sue, e poi minaccia chi le rivuole. È anche questione di prospettive: per il Vietnam quello è il «Mare orientale», per le Filippine il «Mare occidentale».
I due Paesi sono quelli che più si sono impuntati di fronte all’avanzata di Pechino. In Vietnam, che è stato per quasi un millennio sotto la dominazione cinese, la rabbia è divampata in particolare nel 2014, quando la Cina piazzò una piattaforma petrolifera vicino all’arcipelago conteso delle Paracel: le rivolte contro le fabbriche cinesi in Vietnam causarono 21 morti.
Nelle Filippine, le puntate di pescherecci cinesi nelle acque nazionali hanno causato ripetute tensioni, con accuse di contrabbando. L’ex presidente Benigno Aquino arrivò addirittura a paragonare la fame territoriale della Cina a quella della Germania nazista. La recente costruzione di vere e proprie basi militari su (ex) atolli semi-sommersi nell’arcipelago delle Spratly (conteso con cinque stati) ha intensificato le paure che quel mare diventi un «lago cinese», come i Caraibi per gli Usa.
La frustrazione è ancora più grande perché il confronto, economicamente e militarmente, è impari. Un gigante di 1,3 miliardi di persone con la seconda economia al mondo e forze armate con un budget che cresce in doppia cifra ogni anno da due decenni, contro Paesi che neanche mettendosi assieme potrebbero fermarlo. In più, nessuno vuole tagliare i ponti e dire addio agli investimenti cinesi. E Pechino usa sapientemente l’antica strategia del «divide et impera».
Per cautelarsi, tutti questi stati cercano la protezione dell’ombrello statunitense. Agli Usa va benissimo: hanno appena tolto l’embargo sulla vendita di armi al Vietnam, rafforzando inoltre due anni fa la già solida alleanza militare con le Filippine. Da qui gli accresciuti rischi di conflitto: se Washington punta a contenere Pechino, quest’ultima vuole cancellare il ricordo del «secolo di umiliazioni» sofferte dalle potenze occidentali.
Molti analisti tracciano paralleli con la Prima guerra mondiale: come allora in Europa, anche oggi in Asia nessuno vuole un conflitto. Ma un incidente imprevisto potrebbe innescare una reazione a catena.