Giuliano Battiston, Pagina99 9/7/2016, 9 luglio 2016
IL CERCHIO DEI TOSSICI NEL PARADISO DEI PAPAVERI
«Vengo qui tutti i giorni, ma la sera torno a casa dai miei figli e da mia moglie. Mi vergogno di quel che faccio, ma non riesco a smettere». Mahmoud ha 34 anni. È nato a Kabul, ma ha trascorso molti anni in Iran. «Sono stato a lungo a Shiraz. Per un po’ ho lavorato, poi ho cominciato a fumare oppio. Da allora, il lavoro non l’ho più trovato». Circa un anno fa Mahmoud è tornato in Afghanistan. La famiglia sperava che il rientro in patria lo avrebbe aiutato a superare la dipendenza: «Uso droga da almeno sette anni. Prima l’oppio, ora soprattutto l’eroina», racconta prima di riprendere a fumare. Seduto sui talloni, nascosto da una sciarpa legata a una balaustra di metallo da un lato e ad alcuni sassi dall’altro, Mahmoud passa il tempo sotto la sua tenda improvvisata, insieme a tre amici. Siamo a Pol-e-Sokhta, uno dei principali ponti di Kabul, a ridosso del popoloso quartiere Qart-e-Seh.
Pol-e-Sokhta è un posto speciale, lo sanno tutti qui a Kabul. Una sorta di zona franca. Un mondo a parte, a poche decine di metri dalle bancarelle di frutta e verdura e dai minibus che partono verso le destinazioni settentrionali.
Pol-e-Sokhta è la cittadella dei tossicodipendenti. Una città sotterranea, oscura, putrida come le acque stagnanti trattenute dall’immondizia e dalle centinaia e centinaia di corpi che riempiono ogni anfratto della parte bassa del ponte. Sotto, un mormorio costante e indistinto, voci affaticate e deliranti, fuochi improvvisati, pipe, carte stagnole, litigi e abbracci, escrementi, droga e qualcuno che ci lascia la pelle. Sopra, qualche gruppetto intento a fumare, nascosto da tendine artigianali, sguardi persi, occhiate furtive degli “scagnozzi” che controllano la zona.
Le vite sospese di chi giù non vuole andare, «perché è troppo brutto». Le storie di chi cerca di mantenere un legame con la vita normale, come Mahmoud. O di chi cerca aiuto: «Guarda le mie scarpe», dice Ahmad. «Lo vedi? Sono un imbianchino.
Lavoro, io. Alle mie dipendenze ho decine di giovani che vogliono imparare il mestiere. Ma fumo eroina da tre anni. E quando stacco vengo qui», continua. Poi si alza in piedi per mostrare gli abiti sporchi di vernice. «Quando c’è tanto lavoro fumo meno. Quando non c’è, mi lascio andare». La famiglia ancora lo sostiene. Lo tiene in casa. «La gente ci evita. Crede che siamo criminali. Ma non siamo cattivi, siamo malati. Abbiamo bisogno di aiuto. Puoi fare qualcosa, tu?».
Mahmoud e Ahmad sono parte di una comunità particolare. Quella dei tossicodipendenti afghani. Una comunità che cresce ogni giorno. Secondo le stime governative, in Afghanistan ci sono tra 1,9 e 2,4 milioni di tossicodipendenti. Statistiche imprecise, parziali, che raccontano un fenomeno che coinvolge almeno il 12,6% della popolazione adulta, più del doppio della media mondiale, che si attesta al 5,2%.
Usato un tempo nelle famiglie rurali come rimedio naturale ai mali della povertà e della mancanza di medicine, l’oppio è ormai diventato una droga a tutti gli effetti. E le istituzioni afghane faticano a occuparsi delle conseguenze: nel Paese esistono soltanto 123 centri per il trattamento (inclusa l’ex base militare americana di Camp Phoenix), sufficienti per il 10,7% di chi usa oppio o eroina. Sostanze che a Kabul come nel resto del Paese si trovano con estrema facilità. «Un “pezzo” di eroina costa 100 afghanìs (poco più di 1 euro, nda)», fa notare Mahmoud mostrando una bustina di carta ripiegata.
Non potrebbe essere altrimenti: da molti anni l’Afghanistan detiene il primato mondiale nella produzione di oppio. Secondo l’ultimo rapporto redatto dall’Agenzia delle Nazioni Unite sulle droghe e il crimine (Unodc) in collaborazione con il ministero afghano sui contro-narcotici, «nel decennio passato l’Afghanistan ha prodotto circa l’80% degli oppiacei illegali a livello mondiale».
Nel 2015, 183mila ettari di terra sono stati destinati alla coltivazione dell’oppio, il 19% in meno rispetto ai 224mila ettari dell’anno precedente. Una diminuzione che andrebbe attribuita alla minore produttività dei terreni (che nel 2015 hanno restituito circa 16 kg per ettaro, rispetto ai 28,7 del 2014 e ai 56 del 2009), ai costi maggiori della coltivazione e al guadagno inferiore: se nel 2014 ogni ettaro coltivato a oppio forniva ai contadini 3.800 dollari, l’anno scorso valeva invece il 16% in meno, 3.100 dollari, il livello più basso sin dal 2002. Meno soldi ai contadini e meno soldi ai trafficanti. «Nel 2015 il valore netto dell’economia afghana dell’oppio è ammontato a 1,49 miliardi di dollari, una cifra che rappresenta il 44% in meno rispetto ai 2,6 miliardi dell’anno precedente».
Il 2015 è stato dunque il primo anno a partire dal 2009 in cui l’area complessiva coltivata a oppio è diminuita nel Paese. Ma questi numeri non rassicurano gli specialisti, che conoscono la complessità e la reversibilità dei fattori che hanno contribuito alla diminuzione, dalle fluttuazioni del mercato ai raccolti insoddisfacenti. Soprattutto, «un anno non fa una tendenza»: l’Afghanistan continua a mantenere il suo primato mondiale, e vanta un preoccupante incremento decennale nella produzione.
Sulle ragioni di questo incremento, ha provato a ragionare il giornalista Enrico Piovesana nel suo Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio (Arianna editrice, 2016, p.96). La tesi centrale del libro è chiara, sin dalla prefazione: «In Afghanistan, Stati Uniti e Nato hanno scientemente deciso di sacrificare la lotta alla droga - e con essa le vite di centinaia di migliaia di persone – in nome della lotta al terrorismo». Secondo Piovesana le vittime dell’eroina afghana come Mahmoud e Ahmad rientrerebbero dunque «in un cinico calcolo di convenienza dei decisori politici e militari occidentali»: stabilità versus diritti, alleanze con i signori della droga nella battaglia contro i Talebani versus lotta al narcotraffico. Una complicità che non sarebbe soltanto strumentale, ma rifletterebbe la «volontà di certi ambienti politico-affaristico-cri- minali di ripristinare il controllo di un business da almeno 65 miliardi di dollari l’anno che i Talebani avevano messo in pericolo con il bando totale» della produzione, deciso nel luglio del 2000. Il business, argomenta Piovesana, coinvolgerebbe anche le truppe straniere nel Paese, che approfitterebbero della rete logistica del conflitto per esportare oppio ed eroina in Occidente.
Una tesi che non convince: la comunità internazionale ha spesso chiuso un occhio e continua a chiuderlo sui loschi affari degli interlocutori afghani a cui ha affidato la ricostruzione del Paese, ma la sua effettiva complicità nel narcotraffico rimane soltanto una “voce”, un “si dice”, un rumor. Molto diffuso qui in Afghanistan, ma comunque mai confermato.
Per capire il mercato dell’oppio non si può semplificare la sua complessità. Come spiega il ricercatore David Mansfield nel recente A State Built on Sand. How Opium Undermined Afghanistan (Hurst & Co., 2016), pensare che da una parte ci siano le istituzioni afghane e i partner internazionali e dall’altra i signori della guerra e i narcotrafficanti, vuol dire dimenticare la complessa economia politica della droga. E in particolare i contadini: «Al contrario di quanto sostenuto spesso dai media e dagli accademici», scrive Mansfield, che vanta vent’anni di studio sul campo, «le mie ricerche hanno mostrato che non sono stati i “commercianti”, i “warlords” o i Talebani i catalizzatori della diffusione dell’oppio in Afghanistan...ma più spesso i contadini».
Non semplici spettatori, soggetti alle decisioni altrui, dunque, ma attori principali di un’economia che vale il 7% del prodotto interno lordo del Paese.