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 2016  luglio 09 Sabato calendario

L’AMERICA VUOLE LA COPPA MA LA CLASSE (ALTA) NON BASTA

L’AMERICA VUOLE LA COPPA MA LA CLASSE (ALTA) NON BASTA–
Il calcio negli Stati Uniti he un destino paradossale. Mentre nel resto del mondo è il gioco delle strade e del riscatto sociale, da Seattle a Miami invece è bianco, elitario, borghese e costoso. Da anni il soccer soffre di un’autosegregazione nei sobborghi ricchi che sta rallentando la crescita della nazionale maschile e del movimento che punta a ospitare (e vincere) i Mondiali del 2026.
Dal punto di vista economico e mediatico l’evoluzione de: calcio dai tempi della squadra di Alexi Lalas a Usa ’94 ad oggi è la storia di un successo. Nel 1994 calcio e Stati Uniti erano reciprocamente esotici. Oggi tra gli under 17 questo sport è la seconda disciplina professionistica più popolare dietro il football, meglio del basket (compreso quello universitario), alla pari con il baseball. Negli ultimi 40 anni la partecipazione giovanile è aumentata di 30 volte. Il costo di uno spot durante la finale di Coppa del Mondo del 2014 tra Germania e Argentina è stato più alto di quello delle Nba Finals dello stesso anno. E ovviamente c’è da ricordare che la nazionale femminile di Hope Solo e Carli Lloyd è campione in carica, una cavalcata che nel 2015 ha fruttato 40 milioni di dollari in spot alla Fox (solo quattro anni prima erano stati 11 milioni).
Un successo che però è ancora la narrazione di pochi e che non rappresenta un Paese che tra cinque anni non avrà più una maggioranza etnica tra gli under 18 e che entro il 2043 sarà composto solo da minoranze etniche. Per capire il livello del problema, basta guardare la foto della squadra femminile americana prima della finale vinta contro il Giappone: una nazionale mono-etnica. Se quella delle donne calciatrici è la fotografia di un Paese che letteralmente non esiste, quella maschile riesce a essere leggermente più accurata perché giocatori come John Brooks e Fabian Johnson, di origini afroamericane, sono nati e cresciuti in Germania e poi hanno scelto la nazionale americana (visto che non avevano alcuna speranza di giocare in quella tedesca).
Il problema è così evidente che la federazione ha istituito una Diversity Task Force guidata da Doug Andreassen, un ex dirigente locale che viene guardato come un alieno dal movimento che è stato chiamato a correggere: «Il nostro calcio funziona solo con i ragazzi bianchi», ha dichiarato a maggio, qualche mese prima della Copa América Centenario che gli Stati Uniti avrebbero ospitato. «Il sistema è rotto e a nessuno importa. Ogni volta che ne parlo, ricevo email di odio: “Come osi farci uscire sui giornali con questi titoli?”. Ma il punto è che dobbiamo parlarne».
Se nel calcio femminile questa disparità non ha ancora minato i successi sportivi, grazie a un panorama mondiale meno competitivo e al fatto di ospitare il campionato professionistico più importante, in quello maschile sta frenando i risultati di una nazionale che non è mai riuscita a sfondare e guadagnare credibilità. Risultati dignitosi, però mai all’altezza del seguito popolare e della grandezza del bacino di praticanti e tifosi che ha dietro. Alla Copa América di casa è arrivata in semifinale, è stata maltrattata dall’Argentina e poi ha perso la finale di consolazione con la Colombia. La squadra olimpica non si è qualificata a Rio 2016. Negli ultimi anni, le sue stelle sono state uomini come Tim Howard e Clint Dempsey, idoli a casa ma giocatori del tutto ordinari all’estero. Michael Bradley, uno dei pilastri di questo sport negli Stati Uniti, in Italia è stato un centrocampista tra i tanti, 76 presenze e 3 goal in quattro anni di Serie A tra Chievo e Roma.
«Perché il calcio americano non riesce ad avere il suo LeBron James?», si è chiesto Motez Bishara, giornalista sportivo della Cnn. La risposta, secondo i critici della federazione e anche secondo Andreassen, è nella struttura del sistema giovanile, costruito sul pay to play, giochi se paghi. La mono-etnicità è il sintomo, la malattia è socioeconomica: gli ispanici negli Stati Uniti hanno un reddito medio di 11 mila dollari più basso della media nazionale, gli afroamericani di 17 mila. E per entrare nelle giovanili e nelle Academy si paga. «Le fondamenta del calcio giovanile sono i soldi che devi avere per partecipare. Se a un livello elementare questo sport può essere giocato ovunque, in qualunque momento, con un oggetto vagamente rotondo, a un livello più organizzato i costi sono proibitivi per le famiglie. Il calcio giovanile è cucito su misura per le classi medie ed è fatto per tenere fuori i genitori poveri, con più lavori, che non possono sostenere spese e viaggi», spiega Stephanie Yang, giornalista esperta di calcio americano e, incidentalmente, di un’etnicità sottorappresentata nella nazionale che segue e per la quale tifa.
Sia spese che viaggi, con questo sistema, sono a carico delle famiglie. Solo di iscrizione, una Academy under 9, l’età in cui nel calcio il talento comincia a manifestarsi, costa 900 dollari all’anno. Per giocare nelle giovanili di Portland si pagano 2.000 dollari di iscrizione, a Dallas 2.500, in alcune squadre si può arrivare a 5.000. Più tutti gli spostamenti per gli allenamenti, sempre in strutture non servite da nessun trasporto pubblico: così è nata l’iconografia della “soccer mom”.
Ci sono le borse di studio, ma in uno sport elitario e in squadre dove tutti gli altri pagano per giocare, il ragazzino che viene da un quartiere povero viene ostracizzato da compagni e famiglie, che non accettano che qualcun altro entri in quel recinto protetto e costoso, come ha raccontato al Guardian Nick Lusson, direttore di una fondazione per l’inclusione nel calcio.
In questo modo i talenti spariscono dai radar, in un Paese che tra le altre cose ha 55 milioni di ispanici, famiglie nelle quali il calcio è una tradizione da generazioni e che potrebbero fare degli Stati Uniti una superpotenza del calcio. Invece, nelle classi subalterne nessuno vede il calcio come un’occasione di riscatto, ma solo come uno sport delle élite. I figli degli ispanici vanno verso il baseball, quelli degli afroamericani verso il basket.
L’ultimo paradosso è che nella lista Forbes 100 una schiacciante percentuale degli sportivi più pagati al mondo, il 65%, è americana, ma nessuno è un calciatore, anche se a calciatori appartengono i primi due posti, Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. Messi, figlio di operai di Rosario che non potevano pagare le cure per il deficit di ormone della crescita di Leo (lo fece il Barcellona), e Cristiano Ronaldo, figlio di una cuoca e di un giardiniere di Madera con origini capoverdiane.
C’è una storia che racconta sempre Andreassen, risale a quando era dirigente del programma giovanile dello Stato di Washington: una ragazzina di 15 anni, povera, origini messicane, abitava nella periferia sud di Seattle. Era bravissima, gli organizzatori del torneo le pagarono la borsa di studio per iscriversi a un Olympic Development Program in Arizona, dove avrebbe incontrato gli scout dei college, con sponsor che avrebbero pagato il viaggio. In Arizona giocò alla grande e si trovò circondata di offerte. Ma quando tornò a casa, suo padre (appassionato di calcio, era lui che le aveva trasmesso la passione) le proibì per sempre di giocare e nessuno seppe più niente: erano immigrati senza documenti e avevano paura di essere denunciati.