Renzo Rosati, Pagina99 9/7/2016, 9 luglio 2016
QUANDO DEUTSCHE DICEVA VIVA L’ITALIA
Con le banche italiane nel mirino dell’Europa e i loro titoli falcidiati in borsa, e con economisti liberisti come Luigi Zingales che propongono il ritorno dello Stato-banchiere, l’Italia ha trovato un buon alibi nelle vicissitudini della più importante banca tedesca: la Deutsche Bank (DB). Non era mai accaduto che il Fondo monetario internazionale, braccio finanziario di 189 governi con gli americani azionisti di maggioranza, definisse una singola banca “il maggiore rischio sistemico globale”, come ha fatto il 29 giugno per DB. Nelle stesse ore è arrivata dalla Federai Reserve la bocciatura per il terzo anno di seguito della divisione Usa della Deutsche, dopo gli stress test della banca centrale americana. Il Fmi ha censurato in misura minore anche l’inglese Hsbc ed il Credit Suisse, mentre la Fed ha sanzionato anche la spagnola Santander. Però la DB è in entrambe le black list, così il finanziere George Soros le ha piazzato contro 100 milioni delle sue speculazioni ribassiste. Mentre la banca ha chiuso il bilancio 2015 con una perdita di 6,8 miliardi.
I motivi della crisi sono noti da tempo. La DB soffre come tutte le consorelle tedesche dei tassi sottozero praticati dalla Bce di Mario Draghi, che riducono i margini di profitto. Però anziché limitarsi alle periodiche lamentele sui media germanici, quel profitto è andata a cercarlo in attività e mercati ad altissimo rischio: i derivati, scommesse super-speculative emesse per 75 mila miliardi di euro, 20 volte il Pii tedesco, e iscritti in bilancio per 32 miliardi (un calo del 4 per cento di questi asset basterebbe ad azzerare il capitale); ha lanciato linee di credito per la Russia e la Cina.
Ce n’è abbastanza per individuare nella banca fondata nel 1870 da Ludwig Bamberger, già leader del partito nazional-liberale prussiano, il perfetto esempio dei vizi privati e delle pubbliche virtù che noi italiani amiamo addebitare alla Germania e alla sua facciata luterana. Se la Volkswagen è stata Das Auto fino allo scandalo delle emissioni truccate, la Deutsche può ben essere Das Bank. Ai vizi della DB ha ormai l’abitudine di riferirsi Matteo Renzi quando da Francoforte arrivano minacce per la stabilità del Monte dei Paschi o per l’eccessiva esposizione dei nostri istituti ai Btp. E forse proprio dai titoli del Tesoro, per decenni simbolo del risparmio delle famiglie prima di divenire l’ossessivo indicatore dello spread, è bene partire per capire i veri rapporti tra la Deutsche Bank, il nostro Paese, il nostro establishment, la nostra politica.
Fu la DB, nei primi sei mesi del 2011, a vendere l’87 per cento dei propri Btp, da 8 a 0,9 miliardi, innescando il rialzo vertiginoso dello spread. La tesi complottata, tra le indagini della procura di Trani e l’inchiesta di Alan Friedman, oscilla dalla turbativa del mercato all’intrigo ordito da Angela Merkel per far cadere il governo Berlusconi. In realtà la Deutsche scaricò tutti i titoli periferici europei, non certo nella proporzione riservata all’Italia; e con il senno di poi se non l’avesse fatto avrebbe ottenuto lauti guadagni tra cedole e capitale. Per esempio la Commerzbank, che aveva ricevuto gli aiuti di Merkel, si limitò a scendere da 9,7 a 7,9 miliardi.
Ma il vero paradosso è che per quasi tutta la sua storia la DB è stata la più filoitaliana delle banche straniere. Bamberger, esule a Parigi nel 1848, pubblicò a un pamphlet intitolato Viva L’Italia per incitare i tedeschi a ribellarsi agli austriaci. Nel 1883 sottoscrisse i primi bond del Comune di Roma e ne promosse il collocamento alla borsa di Berlino. Nel 1890 fondò il Consorzio di garanzia per i titoli italiani all’estero, piazzando in Germania i due terzi di azioni e obbligazioni pubbliche e private dell’Italia, compresi Comuni, Province e Ferrovie. Il culmine fu la fondazione del Credito Fondiario e poi della Banca Commerciale, della quale rimase azionista fino alla prima guerra mondiale. Hitler e Mussolini non ristabilirono questi rapporti (e del resto le banche erano state nazionalizzate); ci riuscì invece il miracolo economico deH’Italia. Simboleggiato nel 1960 dalla quotazione della Fiat a Francoforte e dal suo aumento di capitale, del quale la Deutsche fu capofila, così come promosse la quotazione in Germania della Olivetti, mentre nel 1963 lanciò i primi bond in eurodollari per conto della Società Autostrade.
Nel 1984 comprò la Banca d’America e d’Italia e divenne il primo istituto straniero sul mercato dei mutui-casa. Nel 1989 rilevò il 2,6 per cento della Fiat, definendosi “socio stabile di lungo periodo”, dopo che Gianni Agnelli ebbe bisogno di riequilibrare l’ingresso nel Lingotto dei capitali libici. E poiché aveva a suo tempo coordinato il collocamento in borsa della Volkswagen ed era azionista di maggioranza della Mercedes, Ulrich Weiss, il suo rappresentante nel board Fiat, fu incaricato di lavorare a una fusione globale nell’auto tra Lingotto, Daimler Benz e Chrysler, un’idea che affascinava l’Avvocato.
Negli anni ‘80 la Deutsche arrivò a controllare 120 industrie tedesche, e quasi altrettante all’estero. Il vero stratega della presenza in Italia era il presidente Alfred Herrhausen, che veniva in vacanza al Circeo. Nel 1989 la Rote Ar- mee Fraktion lo uccise facendo saltare la sua auto: una Bmw. Negli ultimi mesi Herrausen aveva congegnato l’espansione ad Est. Il cancelliere Helmut Kohl, che lo aveva voluto come consigliere, gli chiese: «Che facciamo con la Ddr»? Risposta: «Compriamola». Tentazione contro ragione, dunque destino funesto, scrisse Thomas Mann nel Doktor Faustus.