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 2016  luglio 09 Sabato calendario

A ZONZO NEL TEMPO

Madrid, 1881: il commediografo spagnolo Enrique Gaspar y Rimbau scrive una zarzuela intitolata El Anacronòpete. È la storia di uno scienziato che ha inventato un macchinario per viaggiare indietro nel tempo e lo usa per scopi ben poco scientifici, come ad esempio trascinare la nipote di cui è innamorato in un’epoca in cui le donne siano docili e più sottomesse. Per la prima volta una macchina del tempo fa la sua comparsa nella storia della letteratura (H. G. Wells, per capirci, ci arriverà solo sette anni più tardi, con Gli argonauti del tempo).
Oggi, a centotrent’anni da quel primo improbabile tentativo, Einaudi pubblica l’antologia Viaggi nel tempo, che raccoglie alcuni dei racconti che hanno fatto la storia del genere, e che consente di farsi un’idea di come negli anni il concetto di viaggio temporale si sia evoluto, fungendo da cartina tornasole per le aspirazioni e le inquietudini delle diverse epoche.
Come spiega Fabrizio Farina nell’introduzione al volume, l’idea di viaggio nel tempo è relativamente giovane: prima che Isaac Newton introducesse il concetto di tempo assoluto, spianando la strada alla nozione di un tempo lineare percorribile in entrambe le direzioni, pochissimi autori avevano messo i propri personaggi nella condizione di spostarsi in epoche diverse dal presente.
Le cose cominciano a cambiare nel 1771 quando lo scrittore francese Louis-Sebastien Mercier scrive L’anno 2440, in cui immagina di cadere in un sonno lungo sette secoli e di risvegliarsi in una Parigi utopica in cui l’illuminismo ha trionfato. Il romanzo di Mercier riscuote un enorme successo e dà la stura a una lunga serie di opere simili, in cui però i viaggi nel tempo sono sempre frutto di espedienti fantastici, che siano pozioni magiche (Rip van Winkle di Washington Irving), demoni zoppi (Paris avant les hommes di Pierre Boitard) oppure orologi miracolosi (L’orologio che andava all’indietro di E. P. Mitchell).
Sono Enrique Gaspar e H. G. Wells i primi a immaginare dei macchinari che trasportino fisicamente i loro personaggi a spasso nel tempo; tuttavia, prima che le macchine del tempo assumano un ruolo stabile nella letteratura fantascientifica, sarà necessario un ulteriore passo in avanti in campo scientifico.
Berna, 1905: Albert Einstein completa uno studio intitolato Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, nel quale introduce la teoria della relatività ristretta: spazio e tempo non sono più entità separabili, bensì si integrano in un unico tessuto chiamato spaziotempo. Asoli dieci anni dal romanzo di H. G. Wells, l’idea di viaggio nel tempo viene così sottratta dal dominio della fantasia per assumere connotati scientificamente plausibili. Lungo tutto il corso del XX secolo, le macchine del tempo colonizzano l’immaginario fantascientifico così come quello pubblico, e quei favolistici sonni secolari vengono sostituiti da macchinari sempre più dettagliati. Come spiegherà il fisico teorico Michio Kaku, in un articolo apparso su Wired nel 2003: «Il viaggio nel tempo, prima confinato nel campo del fantastico, era diventato semplicemente un problema di ingegneria».
Ben presto, tuttavia, diventa chiaro come quel «problema di ingegneria» sia tutt’altro che semplice da risolvere: sebbene infatti il viaggio nel tempo sia concettualmente possibile, la tecnologia e la quantità di energia necessarie sono al momento fuori dalla nostra portata. Oggi possiamo affermare con un certo margine di certezza che i viaggi a ritroso nel tempo non sono possibili, né lo saranno in futuro, perché parafrasando Stephen Hawking «se il viaggio nel tempo fosse anche solo concettualmente fattibile, qualcuno sarebbe già venuto a visitarci dal futuro». Oltretutto, viaggi e macchine del tempo hanno ormai colonizzato ogni distretto della fiction letteraria, cinematografica e televisiva; il filone del viaggio temporale è stato saccheggiato senza remore, lasciando alle nuove generazioni ben poco spazio-tempo da esplorare. Eppure, questo genere sembra ancora lontano dal suo viale del tramonto.
Oggi, i viaggi nel tempo dominano il settore editoriale young adult e sono al centro di almeno cinque tra le maggiori serie Tv americane (di nuove ne arriveranno entro fine 2016); non solo, il regista sudafricano Neill Blomkamp (già autore di District 9 e Humandroid) ha addirittura scelto di mettere in pausa il remake di Alien pur di dedicarsi alla trasposizione cinematografica di un romanzo sui viaggi nel tempo (The Gone World di Thomas Sweterlitsch, ancora inedito).
Come è possibile che, dopo così tanto tempo, i viaggi nel tempo abbiano ancora così tanta presa sul grande pubblico? L’ipotesi più convincente arriva da laboratori di ricerca tutt’altro che fantascientifici, ed è che il concetto letterario di “viaggio nel tempo” sia in realtà un riflesso della capacità squisitamente umana di rivivere eventi passati e di immaginarsene di futuri.
Toronto, 1981: Kent Cochrane sta tornando dal suo lavoro in un’azienda manifatturiera, ha appena imboccato lo svincolo dell’autostrada quando la sua moto perde aderenza e finisce fuori strada. In ospedale, Kent esce dalla sala operatoria riportando gravi lesioni ai lobi temporali e l’asportazione bilaterale dell’ippocampo. In breve diventa chiaro che l’uomo ha perso la capacità di archiviare nuovi ricordi, ma la cosa più sorprendente è un’altra: Kent non ha più coscienza autonoetica. In parole povere: non è più in grado di immaginare eventi futuri o di ricordare di essere stato fisicamente coinvolto in episodi del suo passato. Quando gli chiedono cosa gli piacerebbe fare di lì a qualche giorno, Kent rimane zitto. E così che si scopre 1’esistenza di un’abilità specificamente umana che prima di allora nessuno si era mai preoccupato di studiare e che verrà chiamata merital time travel, o più tecnicamente: cronestesia.
Secondo Endel Tulving, lo psicologo canadese che per primo ipotizzò 1’esistenza della cronestesia, gli esseri umani hanno sviluppato l’abilità di «viaggiare mentalmente nel tempo» per ragioni evolutive: la possibilità di rivivere eventi passati o di anticipare il proprio ruolo in eventi ancora non accaduti ci ha consentito di apprendere dal nostro passato e di prevedere i possibili esiti futuri di una scelta; ma soprattutto, ci ha consentito di rendere le nostre esperienze e le nostre preconizzazioni comunicabili.
Non è un caso se, negli ultimi anni, stiamo assistendo alla nascita di un nuovo sottogenere in cui i viaggi nel tempo non avvengono più in una dimensione “esterna”, bensì in una “interiore”: il cervello umano. Nel film del 2004 Eternal Sunshine of a Spotless Mind, ad esempio, il regista francese Michel Gondry immagina un futuro in cui sarà possibile editare chirurgicamente la memoria di una persona: nel film il protagonista si ritrova a viaggiare a ritroso nei propri ricordi nel disperato tentativo di salvare quelli relativi alla sua ex-ragazza.
Il viaggio nello “spazio-tempo interiore” descritto da Gondiy è probabilmente la celebrazione più riuscita dell’abilità umana nota come cronestesia, abilità che costituisce le fondamenta della nostra stessa capacità di creare storie.
Ne L’istinto di narrare (2014) Jonathan Gottschall suggerisce, in modo nemmeno troppo provocatorio, che il nome Homo Sapiens possa essere sostituito da Homo Fictus (uomo narratore).
Questo perché ciò che più distingue noi esseri umani da tutte le altre specie, l’abilità che più di ogni altra ci ha consentito di farci largo nell’affollata corsa alla sopravvivenza, è stata la nostra capacità di fabbricare (e comunicare) storie.
A pensarci bene, le storie non sono altro che veicoli incredibilmente potenti (e autonomi) che consentono di trasportare da un individuo all’altro informazioni, esperienze, allarmi e progetti per il futuro. In quest’ottica, il “viaggio nel tempo mentale” è il requisito fondamentale per ogni narrazione: è il concetto di tempo che ci consente di inquadrare noi stessi all’interno di una narrazione, contemplando da osservatori esterni il nostro passato e proiettando ipotetiche versioni di noi nel futuro.
Questo significa che qualunque direzione prenderà il progresso tecnologico, a prescindere da quanto ci avvicineremo alla prospettiva di spostarci a piacere nello spaziotempo, se anche le macchine del tempo scompariranno del tutto dal nostro orizzonte narrativo, avremo sempre il nostro cervello su cui fare affidamento.