GIAMPIERO CALAPÀ e SILVIA D’ONGHIA, il Fatto Quotidiano 12/7/2016, 12 luglio 2016
VISITE, POSTA E VASI DI MIELE: IL 41 BIS NON È PIÙ COSÌ DURO
C’è un giudice di sorveglianza a Sassari che consente lo scambio di corrispondenza tra detenuti di istituti diversi: così quelli di Sassari scrivono a quelli di Tolmezzo. Solo che a Tolmezzo c’è un altro giudice che vieta la corrispondenza persino tra detenuti e familiari, come invece previsto da una nota del Dap. Non è una barzelletta, è una delle tante contraddizioni del 41 bis. Il problema non è la legge 94 del 2009, ma la gestione eterogenea della misura applicata ai più pericolosi detenuti per reati di mafia. 732, al momento, contro i neanche 600 uomini del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria che si occupano di loro in 12 istituti. Fino a qualche anno fa erano 660, ma – a fronte dell’incremento dei detenuti – i poliziotti che vanno in pensione non vengono sostituiti. “Tutto è affidato ai singoli magistrati di sorveglianza – spiega un agente – ed è chiaro che questo crea disparità di trattamento. Se uniamo le incongruenze alla simbologia mafiosa, capiamo che i boss riescono a esprimere ancora il loro potere”. Vediamo come.
PERMESSI. Le cose sono due: o nel 2016 stanno morendo tantissimi familiari, oppure gli avvocati sono diventati più potenti e i giudici più tolleranti. In tutto il 2015, infatti, solo undici boss hanno ottenuto il permesso di visitare parenti moribondi o familiari infermi o gravemente disabili. Nei primi sei mesi del 2016, siamo già a quota dodici. Si tratta di permessi che vanno dall’una alle tre ore, ma questo significa che vengono impiegati una ventina di poliziotti, spesso un volo militare, cioè un costo per la collettività che va dai dieci ai 20 mila euro. “Con alcuni paradossi – spiega la nostra fonte – tipo quello di un boss autorizzato a tornare nella sua casa tra i vicoli di Bari vecchia o in un paesino siciliano con la ‘processione’ per incontrarlo. O ancora, a far visita a un defunto: solo che quando arriva là e non trova nessun parente se ne vuole andare subito. In alcuni casi non viene neanche informata la Dda. Non sarebbe meglio, quando si può, prelevare il figlio disabile e portarlo dal padre?”.
VISITE MEDICHE . Il personale che cura i detenuti è delle Asl, che gestiscono la sanità in carcere. Durante le visite, la polizia deve rimanere sulla soglia, guardare ma non ascoltare. E se il mafioso prova a condizionare il medico? “In alcune strutture può capitare di captare conversazioni sospette – prosegue il nostro agente – solo che anche lì, di fronte a una relazione, ci sono magistrati che apprezzano e altri che biasimano”. Altro segno di potere è la visita del medico di fiducia: “C’è un detenuto in un istituto del Nord che con cadenza regolare riceve due odontoiatri pugliesi, ovviamente pagandoli. Oppure boss che si fanno comprare vasetti di miele da 28 euro l’uno in farmacia. Tutto diventa un simbolo”.
AVVOCATI Ci sono avvocati che fanno la spola tra gli istituti. Alcuni sono addirittura parenti dei mafiosi. “E alle volte scattano love story: c’è un boss che accarezza i capelli della sua avvocata”.
SIMBOLOGIA. In un reparto 41 bis, tutto ha un significato. Dalle foto dei detenuti, che dovrebbero avere la stessa grandezza, al cibo: “Di solito il primo che dice ‘Buon appetito’ è il capo e vorrebbe essere servito per primo – ci spiega l’agente –. Dobbiamo stare attenti a modificare il percorso del carrello”.
“Chi non è mai stato dentro, non può capire cosa sia il 41 bis – conclude il poliziotto –. Pensi a una cosa: quando arriva una T-shirt bianca in un pacco, dobbiamo assicurarci che non riporti scritte sotto l’etichetta o sotto l’ascella. Tutto va controllato, e noi siamo pochi. Mi chiede se c’è un progetto per smantellarlo? Sicuramente non ce n’è uno per mantenerlo”.
GIAMPIERO CALAPÀ e SILVIA D’ONGHIA, il Fatto Quotidiano 12/7/2016