Andrea Greco, Affari&Finanza – la Repubblica 11/7/2016, 11 luglio 2016
IL PARACADUTE DI VIA XX SETTEMBRE: LO SCUDO STATALE SALE A 600 MILIARDI
Garanzie su garanzie. Stanno diventando le nuove accise sul prezzo della benzina. Ogni volta che il mondo dà qualche scossone forte a una qualche attività degli italiani, il governo arriva con il suo "cerotto" in forma di garanzia sulle passività. Con l’effetto che nel tempo si è accumulata una montagna di miliardi di garanzie su disparati ambiti, poche delle quali effettivamente usate, mentre un riordino della matassa è difficile senza destare nuovi timori o rivendicazioni. Sul sistema delle garanzie, invece, resta il problema del monitoraggio, scarso e poco praticabile anche a causa della mole.
Così le iniziative del governo di turno si rivelano spesso di corto respiro, perché dopo l’urgenza iniziale che porta a sfornare decreti ad hoc viene meno l’azione di lungo raggio, per la quale sarebbe necessario che il Tesoro riuscisse a verificare ex post l’efficacia delle agevolazioni di volta in volta approntate. Il governo di Matteo Renzi sulle garanzie non si sta risparmiando: a inizio 2016, dopo un anno di sfiancante trattativa comunitaria, ha introdotto le "Gacs" (Garanzie sulla cartolarizzazione delle sofferenze) con un plafond fino a circa 40 miliardi per le banche intenzionate a vendere crediti insolventi, anche se passati sei mesi le Gacs non sono state utilizzate, e si prevede che lo saranno per una frazione millesimale, a causa della loro farraginosità dovuta alle tenaglie normative e politiche esercitate dalla Commissione europea a riguardo.
A fine giugno poi, dopo l’incauto esito del referendum britannico sull’uscita dall’Europa, Palazzo Chigi ha adottato lo schema di garanzia a sostegno della liquidità bancaria: uno "scudo" da 150 miliardi di euro, sulle obbligazioni più sicure (di tipo senior e covered bond), con durata residua massima di 5-7 anni, valido fino al 31 dicembre in funzione di argine alla speculazione, per agevolare le banche nella vitale raccolta di liquidità anche in una fase di rinnovate turbolenze sul mercato.
E’ un bel principio, quello della responsabilità in solido di cui la Repubblica italiana si carica nei momenti difficili, come fosse un buon padre di famiglia; ma nella pratica di rado funziona. A una ricognizione fatta da Affari&Finanza con l’aiuto di alcuni addetti ai lavori risulta infatti che le evidenze storiche, cui si sono aggiunte le iniziative politiche dei governi degli ultimi anni per affrontare la crisi e l’ultimo schema pro-banche, abbiano fatto lievitare a 575,4 miliardi di euro l’intero plafond di garanzie potenzialmente a disposizione di enti, banche, imprese e istituzioni sovranazionali che potrebbero chiedere di rivalersi.
"Una bomba sistemica", dice Carlo Milani, economista direttore di Bem Research, che si occupa di economia digitale. Perché si tratta di una fetta pari a quasi metà del Prodotto interno lordo nazionale, pertanto in caso di eventi catastrofici l’escussione di queste garanzie non sarebbe concretamente attivabile, e avrebbe il probabile effetto di trascinare nel default chi ha sottoscritto le garanzie e chi le eroga. Come già si è visto durante alcune crisi del passato, tra cui quella delle banche irlandesi e della valuta messicana. Per fortuna la "bomba" è puramente virtuale: l’ultimo Documento di economia e finanza del governo informa che al 31 dicembre 2015 "le garanzie concesse dallo Stato sono ammontate a 36,8 miliardi, pari all’1,9 per cento del Pil"; e che "nel confronto con i principali partner europei, lo stock di garanzie pubbliche dell’Italia risulta tra i più bassi", mentre "negli ultimi anni i livelli più elevati sono stati registrati nei paesi i cui sistemi finanziari sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, tra cui Irlanda, Austria, Grecia e Spagna".
A parte i numeri del Def, comunque, molti altri di questo articolo sono da prendere con beneficio di inventario, per la non eccelsa trasparenza che circonda l’argomento: quei 36 miliardi non possono ovviamente comprendere la raccolta della Cassa depositi e prestiti tramite il canale delle Poste, che da sola vale 252 miliardi. Del resto il Tesoro non si è reso disponibile per un commento. Vi è grande differenza, comunque, tra le garanzie pubbliche messe a disposizione e quelle effettivamente utilizzate e quelle che il paese – tramite il Tesoro, il ministero dello Sviluppo economico, la Banca d’Italia o la Cassa depositi e prestiti – ha scritto in vari capitoli "per memoria" al disotto della linea finale dei conti pubblici, senza che a queste corrispondano concrete voci di spesa. Le garanzie statali, infatti, ai sensi delle direttive Eurostat, non fanno parte del debito pubblico: vi concorrono solo se vengono effettivamente tirate, oppure se ci sono elevate probabilità che lo siano presto.
Una scorsa al resto del "monte garanzie" dà meglio l’idea dei singoli casi. La parte magna riguarda il risparmio postale, pari a 252 miliardi di euro dotati di pubblica garanzia. "E’ la classica garanzia non aggredibile – nota Milani – perché riguarda un ammontare che lo Stato non potrebbe rifondere in caso di crisi sistemica. Inoltre c’è il fatto che le Poste sono state privatizzate e quotate, e sono sempre più aggressive nei servizi finanziari in concorrenza alle banche".
Tuttavia, se agli occhi della maggior parte dei cittadini la garanzia pubblica è in seno al gigante della logistica guidato da Francesco Caio, in realtà a essere garantite sono le emissioni della Cdp tramite gli sportelli postali. E anche i vecchi libretti postali, su cui campeggia la scritta "Repubblica Italiana", sono affare della Cdp ormai. Ma forse, per non turbare i risparmiatori o per effondere i raggi benevoli della garanzia pubblica anche sui depositi postali che non ne hanno diritto – fa comodo una certa vaghezza.
Anche la "doppia garanzia" della Sace è un caso di sovrapposizione tra pubblico e privato. La società che copre i rischi di controparte sulle esportazioni, ed era ente pubblico fino al 2004, è stata "privatizzata" nel 2012, vendendola alla Cdp in cambio di 6 miliardi. Ma il trasferimento alla grande holding partecipata da Tesoro e Fondazioni ex bancarie non ha fatto venire meno le garanzie dello Stato "per i rischi non di mercato", che secondo l’ultimo Def erano concesse per 6,02 miliardi, e che si aggiungono al portafoglio rischi di 41 miliardi, garantiti in proprio dall’azienda che ha appena nominato presidente Beniamino Quintieri e ad l’ex banchiere Alessandro Decio.
Per effetto del Decreto Competitività del 2014, scritto per aumentare il sostegno a operazioni su " settori strategici per l’economia o società di rilevante interesse nazionale ", la società, che fa concorrenza agli assicuratori privati e in un futuro prossimo potrebbe essere quotata, gode di una "riassicurazione" pubblica che scatta al raggiungimento di certe soglie di concentrazione dei rischi. Sace fa sapere che "le attività a sostegno di export e internazionalizzazione come accade in molti paesi sono coperte da una garanzia di ultima istanza dello Stato, che interviene solo ed esclusivamente in caso Sace non fosse in grado di far fronte con le proprie risorse", pari a 7,4 miliardi tra patrimonio netto e riserve tecniche.
Le banche private, tuttavia non possono lamentarsi se si parla di garanzie statali. Quelle risalenti al 2011, predisposte per quasi 100 miliardi di euro e utilizzate per i quattro quinti circa, furono preziose alla maggior parte degli istituti italiani per emettere obbligazioni "fantasma", emesse al solo scopo di portarle alla banca centrale di Francoforte e ottenere in cambio la liquidità che si era assottigliata nel circuito internazionale, secondo uno schema che in parte somiglia a quello approntato a fine giugno, l’indomani della Brexit (...). Ma nel frattempo la liquidità che la Bce ha destinato agli istituti europei è stata tanta che non era più conveniente pagare i costi di quelle garanzie accese (questo spiega perché oggi si sono ridotte a 6,4 miliardi). Ma il vero “aiutino”, secondo dati noti ai funzionari di Bruxelles e inediti, riguarda le fideiussioni statali del Fondo centrale di garanzia per le Pmi, nato per attenuare la dieta creditizia cui le banche, dopo il crac di Lehman, avevano sottoposto le imprese meno dotate di collaterali da portare a garanzia in cambio dei prestiti. Quel fondo, ancora attivo su 17 miliardi di euro di crediti, si è rivelato certamente utile: solo che in diversi casi gli istituti beneficiari si sono “scordati” di traslare il beneficio sul tasso che le imprese pagavano loro in cambio dei finanziamenti. Come dimostra l’aliquota media di oltre il 9% annuo che nel 2014 gli istituti incassavano dalle aziende sui crediti garantiti dalla mano pubblica (quindi con rischio effettivo prossimo allo zero). Si torna al discorso fatto all’inizio, sul monitoraggio delle iniziative di sussidio per vedere se servono davvero, e a chi.
di ANDREA GRECO, Affari&Finanza – la Repubblica 11/7/2016