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 2016  luglio 10 Domenica calendario

“BASTA PIPPE INTIMISTE, LA GENTE PAGA UN BIGLIETTO, NON BISOGNA STRONCARLA” – [Intervista a GABRIELE MAINETTI] – Cuore, acciaio e porte in faccia: “Chi non mi riceveva, chi mi guardava con sufficienza, chi mi liquidava con ‘ci sembra una stronzata’, chi diceva: ‘Il cinema di genere è morto’ e chi giurava che a riproporlo si perdessero soltanto soldi

“BASTA PIPPE INTIMISTE, LA GENTE PAGA UN BIGLIETTO, NON BISOGNA STRONCARLA” – [Intervista a GABRIELE MAINETTI] – Cuore, acciaio e porte in faccia: “Chi non mi riceveva, chi mi guardava con sufficienza, chi mi liquidava con ‘ci sembra una stronzata’, chi diceva: ‘Il cinema di genere è morto’ e chi giurava che a riproporlo si perdessero soltanto soldi. Visto che nessun produttore voleva sostenere il film ho cercato di farlo io mettendoci tutto il denaro che avevo e strutturando un’operazione a bassissimo costo”. Trenta premi più tardi, Gabriele Mainetti, romano sul ciglio dei 40, già attore e ora regista dell’anno guarda alla genesi di Lo chiamavano Jeeg Robot (Lucky Red) con il giusto disincanto: “L’immagine del regista con il cilicio che si fustiga fino a realizzare l’impresa soltanto molto tempo dopo averla immaginata non mi piace”. Perché? Ho fatto il lavoro che avrebbe dovuto fare qualunque investitore con un po’ di visione, quello che non accetto e che anzi combatto è la pigrizia mentale. L’idea che ci sia qualcuno che ti castri e che ti dica: “Qui non siamo in America, questo non lo possiamo fare”. Un giovane regista queste cose non le può ascoltare. Le ascolta spesso? È la messa cantata di gran parte del cinema italiano. Se non fosse solo un collettore di denaro a cui della qualità del prodotto frega poco o niente, un produttore dovrebbe dire il contrario: “Quanto mi piacerebbe fare questa cosa, proviamoci, ingegniamoci”. Non siamo in America? Sti cazzi. Facciamo le cose come sappiamo farle noi, come le facevano benissimo i grandi artigiani degli Anni 70, gente piena di inventiva che non si fermava davanti a un alieno o a un mostro della laguna lamentando la mancanza di fondi. Come nasce Jeeg Robot? Con Nicola Guaglianone che insieme a Menotti ha scritto la sceneggiatura di Jeeg nel 2010, avevamo scritto la storia di un uomo normale che sogna di diventare un supereroe. Faceva ridere e sarebbe potuto diventare una buona commedia, ma mancava qualcosa. Un giorno, Nicola si presenta e butta i fogli sul tavolo: “Facciamo che supereroe è diventato davvero”. “Tu sei matto – gli dico – e io come lo faccio un film così?”. Leggo il soggetto: era estremamente ambizioso. Ci abbiamo lavorato e dopo molte stesure sono andato a proporlo ai produttori. C’erano travestimenti e periferie anche in Tiger Boy, il cortometraggio che precedeva Jeeg, vincitore di più di 20 premi e selezionato tra i dieci finalisti per la nomination all’Oscar. Speravo servisse, ma non è servito. Ho incontrato produttori che magari quel giorno erano stanchi o distratti. Gente per cui esiste un unico tipo di cinema, una formuletta prestabilita da applicare in tutte le circostanze. La voglia di provarci da solo è arrivata dopo un incontro particolarmente deludente in cui invece di offrirmi un sostegno finanziario, mi chiedevano di investire sulla commedia di un altro. C’era questo signore dall’altra parte della scrivania che spostava il mio soggetto, spandeva scetticismo: “Non sei in grado di fare un film così”, e mi proponeva “un ritorno sicuro”. Sono uscito da quell’ufficio con un’incazzatura senza la quale forse Jeeg non sarebbe mai partito. Trovare i soldi è stato difficile? Per fortuna il Mibact con 300.000 euro e Rai Cinema, che ha finanziato lo sviluppo della sceneggiatura, hanno creduto subito nel progetto e lo hanno generosamente sostenuto. Poi è iniziata la regolare trafila burocratica tra un tax credit esterno e l’altro. La ricerca fondi è durata tre anni. Lei viene da una famiglia di importantissimi imprenditori, ottenere aiuto e linee di credito non dovrebbe averle creato difficoltà. Non ho domandato nulla, quindi nulla ho avuto e nel film ho messo tutto quello che avevo guadagnato. Diciamo che se avessi chiesto una mano a mio padre avrei fatto il film con almeno due anni di anticipo. Ma sono contento così. Anche della mancanza di produttori. Ho goduto di una libertà assoluta. Come ha trovato Claudio Santamaria, il suo Enzo Ceccotti, supereroe per caso di Tor Bella Monaca? Volevo fare dei provini e ho spedito qualche copione. Alcuni attori non mi hanno risposto, altri non se la sono sentita, i più coraggiosi sono venuti, tra loro c’erano Claudio Santamaria e Luca Marinelli. Lei è fraterno amico di Santamaria da più di vent’anni. Mi telefona: “Il copione è fortissimo, quando iniziamo?”. “Non iniziamo niente, Clà, prima devi superare il provino”. Dall’altra parte c’è stato un momento di silenzio e poi ho sentito la sua voce senza pause: “Io il provino lo faccio perché è giusto, dovrebbero affrontarlo tutti”. Claudio è stato straordinario, come Marinelli che a differenza di tutti i suoi colleghi venuti a interpretare uno stereotipato coatto di periferia aveva capito la cosa più importante. La stessa che sosteneva anche Marlon Brando: del cattivo devi vedere anche il lato positivo. Si ricorda il primo film che ha visto al cinema? Credo E.T. di Spielberg. Con mio padre, mia madre e mia sorella per anni abbiamo visto sempre gli stessi film degli stessi registi. Al rito di famiglia non mancavo mai. 007, Indiana Jones, i western di Sergio Leone e i lavori di Mario Monicelli. Nei weekend dormivo a casa di mia nonna Ancilla detta Nini, donna adorabile da cui per ore mi facevo raccontare romanzesche storie di guerra. Ascoltava molto da bambino? Mi avevano diagnosticato un disturbo dell’attenzione, ma la verità è che mi annoiavo moltissimo ad ascoltare le persone perché ai bambini gli adulti parlavano per modo di dire. Nonna ti parlava davvero. Come mio zio Stefano, compositore di colonne sonore. Lui aveva una passione per la fantascienza, per il cinema che un tempo si sarebbe erroneamente definito di serie B e che invece aveva trovate eccezionali. Con Stefano completai la mia educazione cinematografica: Starman, Corto Circuito, 1997 fuga da New York, Tron. Poi tornavo a casa, in tv c’era Bim Bum Bam e la sera Zio Tibia Picture Show. Quando la voce di Fabrizio Casadio gracchiava: “Piccoli vermi, è ora di andare a dormire, sta per andare in onda un vero film di paura” io rimanevo regolarmente sveglio. Come ha iniziato a pensare al cinema? Frequentando un seminario di sceneggiatura tenuto da Leo Benvenuti, la persona che aveva scritto per Villaggio, De Sica, Germi, Verdone e Risi. Leo era generoso. Ci insegnava a raccontare storie senza pretendere una lira mentre intorno a lui gente meno onesta organizzava corsi simili della durata di due giorni sempre costosissimi e regolarmente inutili. Un bel gesto. Deve sapere che io sono sospettoso di natura e tendo sempre a pensare che gli altri mi stiano fregando. Così mi chiedevo: “Perché questo signore fa tutto questo per noi? Dov’è l’inganno? Cosa vorrà in cambio ”. Un giorno non mi tenni e glielo andai a chiedere. E Benvenuti cosa le rispose? “Imparo a capire come pensano i giovani e dovrei anche volere soldi in cambio?”. Mi colpì moltissimo. Fu a Leo, un uomo dolcissimo, che chiesi se era utile frequentare anche un corso di recitazione: “Imparando a recitare non riuscirei a scrivere meglio i personaggi?”. Lui mi esortò: “Certo, vai di corsa, tutti gli attori sono ottimi registi e sceneggiatori perché imparano in fretta come parlano le persone”. Benvenuti è stato fondamentale, come è stato importante studiare cinema all’università mentre recitavo. Trovavo quotidiana applicazione nelle cose che studiavo al Dams. Dopo Jeeg non farà più l’attore? Non dico che quel capitolo si è chiuso, ma interpretare una fiction sacrificando un anno di tempo per il solo gusto di stare davanti alla macchina da presa non mi va più. L’ultima volta non mi sono divertito e ho avuto l’impressione di perdere tempo. Da regista sono più fortunato. Ora da regista posso scegliere. Un privilegio che da attore non ho avuto quasi mai. Oltre a Benvenuti chi l’ha aiutata? La lettura di Story. Un saggio sulla scrittura cinematografica scritto da Robert McKee. Sostiene che gli esseri umani abbiano bisogno di storie per restituire senso nel quadro di una realtà ambigua, caotica e di difficile lettura. Io non sono caduto nell’errore di sentirmi subito nipote di Fellini e Antonioni, registi che poi ho studiato e amato, ma che non ho idealizzato né messo sul piedistallo. Per me valevano esattamente come i miei amati cartoni animati, non c’era differenza. Mi ricordo che ci fu il trentennale di E.T. e provai a coinvolgere alcuni amici per andare a rivederlo. Ci fu un coro di risposte negative: “No, che ci importa, di E.T.? Andiamo a vedere un bel film di Chabrol, no?”. Mi sono salvato dalla trappola dell’autorialità. Sa cosa mi diceva sempre Silvano Agosti? Cosa le diceva? “Oh mi raccomando, non gli raccontare le tue pippe mentali al pubblico, stanno pagando un biglietto e ti stanno concedendo due ore del loro tempo, hai una grande responsabilità, non li stroncare con le tue stronzate intimiste”. Un precetto che mi è entrato in testa. A proposito, il titolo della sua tesi di Laurea? Vuole ridere? “La rebrandizzazione dei morti viventi dopo l’11 settembre”. George Romero aveva pensato al morto vivente come specchio deformante della società già nel 1968. Il morto vivente era il simbolo di una enclave che si stava ammalando e che infine ti mangiava. Ma dopo l’11 settembre i morti viventi sono diventati super veloci e invisibili. Perché? Perché si erano trasformati in terroristi. Se si escludono eccezioni come l’ultimo film di Caligari, quando il cinema italiano racconta le periferie indulge alla retorica. I peggiori di tutti sono quelli che ti vogliono raccontare il dramma sociale perché sono stati in periferia un po’ di tempo e pur non avendo empatizzato con la gente e avendo anzi avvertito ripulsa, pensano di aver capito tutto e si mettono lì con empito pedagogico a raccontarti la vita di merda del buon selvaggio. Un mio amico coatto e saggissimo che in periferia vive è andato a vedere uno di questi film e mi ha telefonato arrabbiatissimo: “Ci ho portato mio figlio pieno di speranze e ne sono uscito delusissimo. Ci descrive per quello che non siamo, come un gruppo di indistinte teste di cazzo”. Aveva ragione. Di quale film parliamo? Si dice il peccato, non il peccatore. Se ci pensa un po’ ci arriva. Lo sguardo borghese nei confronti del dramma sociale comunque è una cosa tremenda. La lezione più bella sulla povertà al cinema per me resta quella del finale di Poveri ma belli: “Sposiamoci”, “E dove andiamo a vivere?”, “A casa di mamma”, “E come facciamo?”, “Ci stringiamo”. Ecco, non ci sarebbe bisogno di dire altro. Chi sono stati i modelli cinematografici a cui si è ispirato per Jeeg Robot? Nella rappresentazione grottesca della violenza i film di Takeshi Kitano, uno dei miei registi preferiti in assoluto. Nel personaggio di Luca Marinelli ci sono echi di Cheyenne, il protagonista di This Must be the place di Paolo Sorrentino? Forse a livello inconscio. Stimo molto Sorrentino, ma non ci ho pensato. Nel film Marinelli canta Un’emozione da poco di Anna Oxa con un certo talento. Avremmo voluto ingaggiare un cantante italiano però costava troppo. Poi abbiamo ripiegato su una cantante, ma non ci convinceva. Così a un certo punto abbiamo avuto l’idea di trasformare Marinelli in un patito delle icone pop femminili degli Anni 80. Avevamo un mazzo di canzoni da scegliere e dopo aver accarezzato l’idea di usare Viola Valentino e poi Loredana Berté di Non sono una signora, anche per l’insistenza di Marinelli abbiamo optato per quella della Oxa: “È il nostro Bowie donna”, ci siamo detti. E ci siamo divertiti a immaginare Luca vestito e truccato quasi come Bowie in Ziggy Stardust. Il profilo di Tor Bella Monaca c’era anche in uno dei suoi primi lavori, Basette. Sono nato e cresciuto all’Aventino, ma a Tor Bella Monaca ero passato da bambino con mio padre che ci aveva lavorato, ci ero tornato per recitare a teatro e soprattutto c’era stato Nicola Guaglianone, il mio sceneggiatore, da volontario per il servizio civile. Quella realtà, molto dura, se l’è portata dietro per anni e poi ha voluto metterla in un film. La periferia mi è sempre piaciuta comunque e con grande dispetto della mia famiglia, l’ho sempre cercata e inseguita. In Tiger Boy ci sono Centocelle e Torpignattara, ad esempio. Perché l’ha sempre cercata e inseguita? Un mio amico caro, un coatto mostruoso, dopo aver visto Jeeg mi ha scritto una cosa che mi ha commosso ed emozionato: “Anche se sei nato a chilometro zero e quindi nel centro di Roma, sappi che la periferia è uno stato interiore e tu sei periferico, fratè”. Ma lei a scuola era un somaro? Per niente. Studiavo, mi applicavo, a metà del liceo classico mi sono trasferito in una scuola americana, l’equivalente del liceo linguistico. Per mettermi in pari ho dovuto correre. Corre anche oggi verso il seguito di Jeeg Robot? Vedremo il secondo capitolo? Recentemente in Svizzera ho incontrato un grande regista indiano. Anurag Kashyap mi ha fatto riflettere: “Ricordati una cosa – mi ha detto – i fan di Jeeg sono il tuo più grande nemico, loro si aspettano Jeeg 2 e invece tu stai ancora cercando. Anche a costo di farli arrabbiare non devi smettere di cambiare”. Aveva ragione. E così Jeeg 2 non lo faccio. E cosa farà? Con grande paura alzerò l’asticella e coprodurrò un nuovo film con Lucky Red che non c’entra nulla con il precedente. Ho scritto un soggetto con Guaglianone, ma è ancora una pianta giovane. Se la metto sul davanzale e la espongo alla curiosità appassisce in un attimo. Sta prendendo forma. Ci vorrà tempo. La farà crescere in America la nuova pianta? Macché. Stiamo a casa. Restiamo in Italia. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 10/7/2016