Aldo Nove, il Fatto Quotidiano 11/7/2016, 11 luglio 2016
I NOVANT’ANNI DI POMODORO CHE LIBERA LA NATURA DALLE ROCCE
Arnaldo Pomodoro ha compiuto 90 anni. Le sue opere sono in tutto il mondo. E tutti, anche chi non ne conosce il nome, le conosce: come la celeberrima sfera che vediamo inquadrata ogni volta che c’è un collegamento televisivo con la Farnesina.
Le celebrazioni saranno diverse. Milano, ad esempio, sua patria adottiva, lo festeggerà in varie sedi della città con una grande antologica allestita contemporaneamente. A noi piace ricordarne, attraverso le memorie rubatigli attraverso due decenni di sodalizio, gli esordi. Le origini nel Montefeltro e la suggestione per un passato che Arnaldo Pomodoro ha saputo rendere eterno presente.
C’era un bambino che si chiamava Arnaldo Pomodoro, e aveva due fratelli. Giò e Teresa. Erano gli anni Trenta del Novecento e quel bambino andava in bicicletta. Con la sua bicicletta andava a scuola e così facendo attraversava l’eco di posti lontanissimi, lontani nel tempo ma vivi, e ferini o docili come animali, presenti ovunque c’erano, quei posti lontanissimi e vicini, nella sua infanzia li sentiva sgattaiolare via, nei riflessi del sole sull’acqua li sentiva parlare di altra gente che lì era vissuta e poi scomparsa, nel ciclo naturale delle cose, nello stesso modo in cui era accaduto, accadeva millenni prima ed era naturale, era tutto naturale e pieno di grazia, e lì perché i bambini sentono i segreti che stanno sepolti nella terra, e che poi si sprigionano, muti, nell’aria. E il mondo che quei posti conteneva, e che quel bambino attraversava, si chiamava Montefeltro.
Ed era strano e antico il Montefeltro. Adagiato sul cuore dell’Italia come una tartaruga rugosa dormiva, e respirava profondamente, lentamente ma sempre, come fosse immortale, come se non avesse mai avuto né inizio né fine, e sulla sua schiena trasportava fiumi e colline, da decennio a decennio, e le città e i paesi attraverso i secoli, e Arnaldo Pomodoro e i suoi fratelli lo sentivano andare, e ogni cosa era viva in quel paesaggio.
Allora lì c’era un’altra Italia che dentro ne conteneva un’altra, che ne conteneva un’altra e un’altra ancora fino a retrocedere prima, nel mito lontano di una terra in cui l’uomo non c’era ancora, infinitamente prima che ci fosse l’Italia e che nei pomeriggi silenziosi si sentiva respirare ovunque nelle pietre, oppure nello scorrere dell’acqua nei rigagnoli, e la luna si rifletteva dappertutto e per lunghi istanti non c’era differenza tra vita e minerale e tutto si trasfigurava, e la notte si potevano sentire lontani i discorsi e il lavoro degli Etruschi e degli Umbri: erano cose vere per i bambini.
I bambini e gli artisti sentono come si muove, il centro del mondo, e non se ne devono spiegare le ragioni, ne vivono la vibrazione, ne sono attraversati e la riportano agli altri e in quel gesto, in quel dono anche gli altri, i grandi, quelli che hanno dimenticato, lo possono cogliere, il cuore di tutto, se sono disposti a essere anche loro per un istante bambini. Gli artisti e i bambini non interpretano i segreti delle cose perché le sanno immediatamente e nulla ha più segreti, veramente vedono, tutto succede continuamente nello spettacolo dell’universo e così i bambini e gli artisti se vedono un cielo e lo indicano con un dito quel cielo diventa loro, subito, e quel prendere tutto è l’arte, e dura per sempre, ed è troppo semplice per chi è diventato adulto, troppo non difficile, non nascosto e troppo vero.
E il bambino Arnaldo Pomodoro vedeva gli intervalli tra i paesi e il mondo che si lasciava sprofondare in se stesso, che indugiava al sole, sotto la pioggia, a chiazze spezzato dal lavoro ininterrotto degli uomini che erigevano mura per viverci dentro e lì sognare i propri sogni, per perpetuare la specie e i blasoni di chi, nella storia, aveva saputo vivere la propria vicenda come un’avventura, e ne tramandava ai figli e ai nipoti e oltre ancora lo stemma, lo incideva sulla roccia, gli dava la forma di un castello, e lì c’erano il mondo della natura e il mondo dell’uomo e li si poteva distinguere, ognuno aveva pari dignità dell’altro, ognuno era legittimato ad esserci e tutto era spaccato in due, allo stesso tempo era umano e non lo era, e quello era il battito arcaico del paesaggio, il Montefeltro era quello.
Anni dopo, raccontando di sé, Arnaldo Pomodoro avrebbe detto: “La natura del Montefeltro aveva una potenzialità visionaria, le rocce con le loro fenditure sono come resti di un’architettura che non c’è”.
Quello era il paesaggio, quello era il tempo e nel paesaggio i secoli a tratti emergevano eccellenti, raccontavano la loro storia, a brandelli, avevano i loro monumenti che il bambino Arnaldo Pomodoro incontrava, come ad esempio la Rocca di San Leo, che aveva visitato durante una gita delle medie.
La Rocca di San Leo era un luogo dello spirito che da grande sarebbe diventato suo campo d’azione ma allora soltanto gli entrava dentro con una forza che i grandi non sanno, perché hanno costruito ciascuno le sue difese, per lasciare magici sullo sfondo i picchi rocciosi che si innalzano volgendo al mare le pareti più scoscese e che i secoli poi trasformano in ruderi, ruderi e natura, il passaggio dell’uomo che si costruisce un mondo perché dal mondo si possa proteggere. Lì, nella Rocca di San Leo, era stato un tempo imprigionato lo spirito di Cagliostro, il grande mago e alchimista che aveva truffato l’Europa intera o non si sa, forse le aveva rivelato i segreti dell’alchimia, dell’elisir di lunga vita, forse invece era stato lui ad essere truffato dalla banalità dell’ordine che l’aveva prima scacciato di paese in paese e alla fine rinchiuso in quella rocca, in uno stanzino piccolissimo che gli permetteva esclusivamente di sopravvivere, di mangiare e di defecare, isolato da tutto, e il mondo lo poteva vedere solo da una feritoia, dall’alto, con il sole che entrava a visitarlo come un mito negato e lontano.
Tutto questo da bambino Arnaldo Pomodoro guardava e non lo avrebbe mai dimenticato, lo avrebbe portato con sé nei suoi viaggi per il mondo e avrebbe più volte cercato di liberare nello svolgersi di un’opera che sempre sarebbe stata di emancipazione dalle forme e di sottomissione alla loro potenza, le forme della nostra vita e della natura, che quando vogliono essere troppo libere si bruciano e quando rinunciano alla propria libertà, sconfitte, si atrofizzano.
Aldo Nove, il Fatto Quotidiano 11/7/2016