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 2016  luglio 11 Lunedì calendario

BIANCIARDI, CHE DISSE NO AL CORRIERE PER L’ANARCHIA

Da questo numero del Fatto del Lunedì una nuova serie per l’estate: biografie non autorizzate di personaggi noti del passato, raccontati attraverso i ricordi di chi è stato loro accanto o li ha conosciuti. Per questa prima puntata Nanni Delbecchi dipinge la vita dello scrittore Luciano Bianciardi presa nel momento cruciale, il bivio che sarà per lui decisivo. Sullo sfondo Brera, il locale Giamaica, dove si riunivano artisti e scrittori e una Milano che non esiste più. Ma anche Grosseto, da dove Bianciardi proviene; le due donne della sua vita; i figli: la sua esistenza complessa. Fino alla dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte. Al centro, le sue opere, la collaborazione con i quotidiani, su cui scrive di costume, sport e critica televisiva e cinematografica
“Mi raccomando, non fare il bischero”. La sliding door di Luciano Bianciardi si apre su queste parole di Indro Montanelli. Ottobre 1962; sulla soglia dei quarant’anni, Bianciardi ha pubblicato per Rizzoli La vita agra e il successo è immediato. Sul Corriere della Sera Montanelli firma l’elzeviro “Un anarchico a Milano” che fa impennare le vendite del romanzo di cinquemila copie in un giorno, dove La vita agra è definito “uno dei libri più vivi, più stupefacenti, più pittoreschi che abbia letto in questi ultimi anni.”
Poco dopo, il principe dei giornalisti lo convoca in via Solferino per proporgli una collaborazione fissa al primo quotidiano nazionale. Lui trasecola, grato e al tempo stesso stupito per quell’attenzione. Il protagonista dichiaratamente autobiografico della sua “storia di una solenne incazzatura scritta in prima persona singolare” è un dinamitardo venuto a Milano per riempire di grisù la sede della Montecatini e farne saltare in aria il torracchione; e ora “il giornale di tutte le Montecatini del mondo” gli offre di lavorare per lui.
“Mi raccomando, non fare il bischero.” L’anarchico a Milano si prende qualche giorno per pensarci su. “Lui ci sarebbe anche andato al Corriere. Indro gli piaceva ed era combattuto”, racconterà la compagna Maria Jatosti. Era lei, la comunista tutta d’un pezzo, a essere contraria: attento, non farti comprare dal giornale della borghesia.
Nella città che vuole incoronarlo come il ribelle di successo (“finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano”) c’era arrivato otto anni prima. L’editore Giangiacomo Feltrinelli stava mettendo insieme una squadra di intellettuali di sinistra per rinnovare la cultura italiana, e il Partito aveva fatto il nome di quello scorbutico cow-boy di Grosseto, “la sperduta Kansas City maremmana”.
A Roma Luciano, sposato e padre di un figlio, si era innamorato di una giovane militante, “Maria della Garbatella”; lei lo aveva seguito al Nord e non si erano più lasciati, da una camere ammobiliata all’altra. Indimenticabile quella incrostata di smog della pensione di via Solferino, a due passi dal Corriere, dove Bianciardi trascorre le giornate battendo a macchina e riempiendo il portacenere, pagato un tanto a cartella, esattamente come il protagonista della Vita agra.
Nel romanzo, sintesi autobiografica dei precedenti saggi Il lavoro culturale e L’integrazione, rivive la boheme della Brera degli anni Sessanta, con gli artisti, gli scrittori e i fotografi che si ritrovano nelle trattorie economiche e soprattutto al “Bar delle Antille” (ovvero il Giamaica). È il rovescio del miracolo italiano e della sua survoltata capitale economica narrato con una lingua straordinaria, per metà di cristallina limpidezza toscana, per metà intrisa delle nevrosi assimilate nel tradurre Faulkner ed Henry Miller.
Nel 56 c’era stata la rottura con la moglie Adria, da cui aveva avuto una seconda figlia e che aveva avuto l’idea improvvida di fargli una visita improvvisa a Milano. E nello stesso anno Giangi Feltrinelli, il miliardario comunista, l’amico che poi a fine mese passava lo stipendio, lo aveva licenziato per scarso rendimento, pur garantendogli lo stesso stipendio con i lavori di traduzione. Checco Zalone sarebbe orgoglioso di lui: niente più scrivania, posto fisso e avvenire sicuro. La sicurezza gli dà ansia, la precarietà lo galvanizza, e nel ’58 si era potuto spostare in zona Fiera, un vero appartamento per una vera famiglia visto che dal legame con Maria stava nascendo Marcellino.
Alla fine Biancardi fa il bischero. Dice di no a Montanelli che in lui aveva visto un altro da sé, un gemello diverso, l’anarchico irriducibile che Indro, anarchico borghese, avrebbe voluto diventare. La porta scorrevole si chiude e all’inizio Luciano si gode il successo, “che dopotutto è solo il participio passato del verbo succedere”. Gira l’Italia per presentare il suo romanzo, collabora al film girato da Carlo Lizzani e interpretato da Ugo Tognazzi, frequenta le feste e i salotti dove le fan fanno la coda per conoscerlo. Insomma, il ribelle il successo se lo gode davvero, e per sopportare di goderselo prosegue l’opera di autodistruzione iniziata da tempo, alcol, fumo, notti bianche da cottimista del lavoro culturale. Detto no al Corriere per restare all’Avanti!, di cui era critico televisivo, uno dei primi critici televisivi italiani negli anni in cui gli intellettuali à la page, Moravia in testa, la televisione si vantavano di non volerla nemmeno vedere. Quando poco dopo, romperà anche con il quotidiano socialista, preferirà continuare a scrivere di televisione e di sport su testate minori, marginali, perfino al confine con la pornografia; ma in compenso animate da uno spirito radicale più vicino al suo, e soprattutto dove è certo di poter scrivere fuori da ogni tutela. Così trasloca prima su Le Ore; quindi nel 1965 passa all’Abc di Giuliano Baldacci, finché nel marzo del 1969, a vero coronamento di una carriera alla rovescia, prende a scrivere racconti per Playmen.
Nel 1964si decide a seguire Maria e il loro figlio Marcellino a Rapallo, dove la Jatosti si era spostata nella speranza di fargli condurre una vita più sana; invece la situazione peggiora, Maria lo riporta a Milano ma ormai è troppo tardi, anche il tempo dei traslochi è finito.
Luciano Binciardi muore per coma etilico a 49 anni il 14 novembre 1971 e ci vorrà la magistrale biografia di Pino Corrias Vita agra di un anarchicoper strapparlo all’oblio di un’Italia che in vent’anni ha conosciuto una metamorfosi radicale. “La prima volta che sono tornata in via Solferino non l’ho riconosciuta” ha raccontato Maria della Garbatella a Malcom Pagani e a chi scrive, quando tre anni fa la intervistammo per Il Fatto. “Brera era tutta rifatta, con queste casine ridipinte e vendute agli americani. E poi la moda, i vip, la Milano di Craxi e di Pillitteri…Qualcuno, leggendo La vita agra, avrebbe potuto chiedersi: come avrà fatto Bianciardi a inventarsi tutto questo?”
1. Continua
di Nanni Delbecchi, il Fatto Quotidiano 11/7/2016