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 2016  luglio 11 Lunedì calendario

TRENT’ANNI POSSON BASTARE: IL TORO RITROVA LA SUA “CASA”

Su quel terrazzino provvisorio di legno c’è sempre qualcuno, a tutte le ore. Ci si sta in tre, quattro al massimo. Il richiamo è irresistibile: caldi pomeriggi estivi, un cantiere da osservare. Un signore con l’aria da pensionato ci è addirittura salito in bici. Si ferma a lungo, scruta, ma non critica le maestranze al lavoro. Non è un cantiere qualsiasi. Stanno ricostruendo la sua casa.
Sembrava impossibile, eppure il Filadelfia, la casa del Torino, lo stadio che fu dei Campioni di Superga, rinasce. Questa volta davvero. Per una volta le ruspe danno un senso di sollievo. I due esausti monconi di calcestruzzo in stile liberty, tutto quel che resta dell’edificio originale, sono stati per quasi vent’anni ostaggio delle erbacce, ora vedono l’erba crescere di fronte. Questo verde, il verde del campo, dà l’idea della rinascita, più delle piccole gradinate che già prendono forma.
No, non è “il terzo stadio” di Torino. Per fortuna lo hanno capito tutti: il fatto che Regione e Comune abbiano coperto sette degli otto milioni (uno ce lo ha messo Cairo) per i lavori non è stato inserito tra le nefandezze del “Sistema Torino”. Da una parte sarebbe stato impopolare, dall’altra è ovvio che il nuovo “Fila” sarà molto meno di uno stadio (5.000 posti, allenamenti della prima squadra e della Primavera), ma è allo stesso tempo molto più che uno stadio: è un luogo del cuore. Del cuore granata.
A ripercorrere le tappe della storia dell’impianto degli ultimi trent’anni c’è da farsi venire la labirintite. Il Filadelfia ospitò le gare interne del Toro dal ’26 al ’63, anno del definitivo trasferimento al vicino Comunale, e gli allenamenti della prima squadra (e le partite della Primavera) fino al 1994.
Il primo piano di recupero, promosso dall’allora presidente Sergio Rossi, risale al 1985. Lavori autorizzati e mai iniziati. Il secondo, presidenza Gian Mauro Borsano, nel 1991. Accantonato nel 1993. Al successore di Borsano, Roberto Goveani, la primogenitura dei progetti grandeur: stadio da 30 mila, come una volta. Abbandonato, causa pesante crisi societaria. Nel 1994 la società passa nelle mani di Gianmarco Calleri – amorevolmente ricordato dai tifosi del Torino come un becchino – che, a differenza dei suoi predecessori, non nutre alcun interesse per il Filadelfia. L’impianto viene chiuso e lasciato a sè stesso. Sarà un caso, ma da quel momento iniziano i peggiori anni della storia sportiva del Torino.
Il calcestruzzo delle gradinate si sbriciola come sabbia asciugata al sole, l’impalcatura che da qualche anno sostiene l’antica tribuna centrale in legno perde i pezzi che rovinano sui mitici undici gradoni del parterre dietro il tunnel da cui uscivano i giocatori, l’unico spazio del vecchio stadio accessibile fino all’ultimo. Una piccola arena a bordo campo, dove non mancavano mai gruppi di tifosi – più o meno anziani – pronti a raccontare ai ragazzini in bicicletta le maniche arrotolate di Mazzola, le acrobazie di Gabetto, l’estro di Dionisio Arce, il derby del ’57 vinto 4-0, l’urlo della folla all’ingresso in campo all’inizio della prima partita in serie B nel ’59, i capricci di Joe Baker, la classe di Denis Law, il giovane Pulici che si allenava da solo contro il muretto, le urla di Giagnoni, l’allenatore con il colbacco.
Nel 1995 inizia l’epopea della “Fondazione Filadelfia” promossa dall’ex sindaco Diego Novelli. Obiettivo: un impianto polifunzionale da 15 o 25 mila posti. Il progetto viene approvato da Comune e Soprintendenza, il plastico viene presentato ai tifosi e piazzato in mezzo al campo nel luglio 1997, quando le ruspe entrano al Fila e cominciano ad abbattere le gradinate. Il progetto, tra mille peripezie, litigi e accuse, naufraga nel 1998.
Novelli, nel marzo 1999, riceve una donazione di 70 miliardi da Giuseppe Aghemo, un imprenditore torinese intenzionato ad acquistare la società dai “genovesi” di Massimo Vidulich (che aveva rilevato il club da Calleri). Si tenta di ricostruire lo stadio senza l’aiuto del Torino, e si celebra anche una farsesca cerimonia di posa della prima pietra. Si parla di un impianto da 34 mila posti. Dietro ad Aghemo c’è Franco Cimminelli, patron della Ergom, importante azienda dell’indotto Fiat. Acquista il Torino (Aghemo, presidente, si dimette dopo poche settimane) e diventerà in breve il padrone più osteggiato della storia granata.
Cimminelli e Attilio Romero (nuovo presidente) presentano nell’ottobre 2000 un progetto faraonico stile Amsterdam Arena, che naufraga clamorosamente in Consiglio comunale a pochi giorni dalle elezioni del 2001. Tutto annullato e tifoseria inferocita.
Nel 2002 la svolta. Il comune, Juventus e Torino si accordano per la concessione del Della Alpi (da cui nascerà l’attuale Juventus Stadium) ai bianconeri e il vecchio Comunale (in procinto di diventare l’attuale Olimpico-Grande Torino) ai granata. Il Fila viene lasciato al suo destino, Cimminelli acquista l’area comprandola da se stesso (dalla sua SIS al Torino Calcio) e inizia un’operazione di speculazione edilizia a base di palazzi e supermercati che verrà scoperta solo in seguito. Il 26 giugno 2005, il giorno dopo la riconquista della serie A, il Torino calcio fallisce.
Inizia l’era Cairo del Torino Fc, riprende la telenovela Filadelfia, il Comune risolve la questione dei palazzi. Nasce una nuova “Fondazione Stadio Filadelfia” (associazioni di tifosi, Comune, Regione e Torino Fc) con l’obiettivo di riedificare l’impianto. L’inizio della svolta. Ma gli intoppi non sono finiti: nel 2010 si scopre che l’area è sottoposta a ipoteca, impossibile intervenire. Regione e Comune risolvono anche questa grana.
Incredibilmente, nessun altro intoppo: bando di gara progetti, vincitore, via ai lavori. Sembrava assurdo. Ma ora cresce l’erba.
L’obiettivo è inaugurare lo stadio il 17 ottobre 2017. Un anniversario. Erano in 15 mila lo stesso giorno del 1926 per Torino-Fortitudo Roma 4-0, prima gara ufficiale al “Fila” (che in realtà si chiamava “Campo Torino”, ma con l’ingresso principale su via Filadelfia). Quell’anno il Torino vinse subito il suo primo scudetto, subito revocato per una mai del tutto chiarita corruzione, prima del derby di ritorno, di Luigi Allemandi, giocatore della Juventus. Da allora l’albo d’oro granata riporta la dicitura “7 scudetti + 1 revocato” (la moda dei “titoli sul campo” era di là da venire). Poco male, la squadra del “Trio delle meraviglie” Baloncieri-Libonatti-Rossetti lo scudetto lo rivince l’anno seguente, questa volta quello buono. Poi, dal 1942, il Grande Torino: cinque scudetti di Fila, cento partite in casa senza subire sconfitte fino allo schianto di Superga dove morirono tutti.
Il Filadelfia è ancora la loro casa. Sta per riaprire.
di Stefano Caselli, il Fatto Quotidiano 11/7/2016