Alessandro Da Rold, Lettera43 9/7/2016, 9 luglio 2016
LO SCUDO CROCIATO DI NESSUNO
L’Operazione Labirinto della procura di Roma ha riportato a galla i vecchi attriti della Democrazia cristiana.
In particolare sono riemerse in superficie le polemiche su a chi appartenga il simbolo dello scudo crociato, l’eredità politica dei figli di Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. Giuseppe Pizza, il fratello di Raffaele ’’Lino’’ Pizza, dominus della presunta cricca che confezionava appalti con aziende pubbliche e ministeri, ha spesso rivendicato di esserne titolare. E sui quotidiani è passata questa sua rivendicazione. Ma Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia, leader di Rivoluzione cristiana, ha demolito l’impianto con un articolo sull’Huffington Post spiegando di essere lui il proprietario dello scudo crociato.
Ma la vicenda del logo della Dc è più complicata di quanto si pensi. Si tratta di un labirinto giuridico, dove alla fine tutti possono avere ragione, ma in fin dei conti non ha ragione nessuno. Come spiega il costituzionalista Gabriele Maestri, autore del libro Per un pugno di simboli. «C’è un peccato originale. All’inizio del 1994 si compie la trasformazione della Democrazia cristiana in Partito popolare Italiano: si torna al nome delle origini, accantonando quello storico ma compromesso dagli scandali. Si voleva mutare rotta, perciò si parlava di partito nuovo, ma giuridicamente c’era solo un cambio di denominazione - da Dci a Ppi - senza voler sciogliere il partito o fondarne un altro».
Cos’è andato storto allora? «Il problema è che per cambiare il nome della Dc, contenuto all’interno dello statuto, si sarebbe dovuto svolgere un congresso - unico organo titolato a modificare norme statutarie - che invece non si è mai tenuto: tra il 18 e il 29 gennaio 1994 si sono riuniti tre organi diversi (assemblea, direzione e consiglio nazionale) per deliberare il cambio di nome, ma niente congresso. Questo danno è alla base di tutte le complicazioni che sono venute dopo: quelle (tantissime) del passato, quelle ancora in atto, quelle in preparazione».
La storia è infatti complicatissima, fatta di litigi e fratture che vanno avanti dal 1994 fino a oggi. Passa attraverso la nascita del Centro cristiano democratico (Ccd) di Pier Ferdinando Casini e le faide - era il 1995 - tra Rocco Buttiglione, segretario del Partito popolare italiano (Ppi), con la sinistra del partito, guidata da Gerardo Bianco e Rosy Bindi, finite con un accordo stile separazione coniugale (il nome al Ppi di Bianco, lo scudo ai Cristiani democratici uniti di Buttiglione) e un’ordinanza in base alla quale il patrimonio che fu della Dc doveva essere gestito di comune accordo dai tesorieri delle due parti.
E poi ancora, nel 1999, la transazione con cui Ppi e Cdu - spiega Maestri - «volendo chiudere uno dei loro contenziosi, confermano tutti gli accordi precedenti, si riconoscono entrambi come titolari del partito della Dc, compresi denominazione e simbolo storici e, in nome di ciò, si impegnano ad agire legalmente contro altri soggetti che volessero usare nome ed emblema della Dc. L’atto è firmato, per il Ppi (e per procura), da Pierluigi Castagnetti (segretario Ppi), dai suoi predecessori Bianco e Franco Marini, dal primo tesoriere Castellani e da quello del momento Romano Baccarini; per il Cdu firma Gianfranco Rotondi, in quel momento tesoriere e rappresentante legale del partito, nonché in nome e per conto del suo predecessore Alessandro Duce e del segretario Buttiglione».
Ma altra data spartiacque è il 5 luglio del 2002, quando termina ufficialmente il regime di cogestione del patrimonio comune del Ppi-ex Democrazia cristiana, con cui Ppi e Cdu avevano continuato ad amministrare fin da luglio del 1995. Si legge che «il Cdu rinuncia con effetto immediato in favore del Ppi-Gonfalone alla gestione nonché a ogni diritto (...) sul patrimonio (...) del Ppi ex Dc» e che, per questo, «la gestione e la rappresentanza del Ppi ex Dc», attività e passività «restano fin d’ora in capo al Ppi-Gonfalone e per esso ai suoi legali rappresentanti».
Tutto finito? Impossibile. Il 21 dicembre 2004 sempre Rotondi ottiene l’autorizzazione a usare il nome ’Democrazia cristiana’ per una propria associazione-partito: la concedono - ricorda sempre Maestri - «i legali rappresentanti del Ppi - ex Dc, Luigi Gilli e Nicodemo Oliverio. Rotondi, poche settimane dopo, parteciperà alle regionali 2005 con il simbolo ’Democrazia cristiana’ (senza scudo), fino a quando gli verrà chiesto sempre dal Ppi di non usare il nome da solo: per questo, in seguito, Rotondi ha guidato la Democrazia Cristiana per le autonomie».
Non finisce qui. Perché il 25 settembre del 2006 Giuseppe Pizza - che nel 2003 era diventato segretario di una Dc, tentativo iniziato un anno prima di riattivare il partito storico, proprio rivendicando il ’peccato originale’ - esulta. Spiega ancora Maestri: «Se a maggio una sentenza del tribunale di Roma aveva dato ragione all’Udc, negando alla Dc-Pizza ogni diritto su nome e segno Dc, questa volta un altro giudice di quel tribunale - riconoscendo che mai si è celebrato l’ultimo congresso della Dc prima degli eventi del 1994 - ha stabilito che il Ppi non può dirsi continuatore della Dc (di fatto costituendo un nuovosoggetto giuridico) e non poteva disporre del suo patrimonio, scudo crociato compreso: ogni accordo stipulato tra Ppi e Cdu, dunque, poteva valere tra le partima non per chi, come la Dc-Pizza, non lo ha sottoscritto». Voleva dire che la Dc-Pizza era la ’vecchia’ Dc o che, comunque, lo scudo era di Pizza? «In realtà no - continua Maestri - il giudice dice solo che il Cdu non può impedire a Pizza di usare il simbolo perché su quello non ha l’esclusiva, tutti però pensano che lo scudo abbia davvero cambiato padrone». Che di fondo non è vero, perché prima una sentenza della Corte d’Appello (nel 2009), poi una della Cassazione (nel 2010) ribalteranno tutto.
«Quelle sentenze», conclude Maestri, «dicono che tutti i partiti che si rifanno all’esperienza della Dc sono soggetti politici e giuridici nuovi, diversi da essa, dunque non hanno l’esclusiva su nome e simbolo e non possono impedire ad altri di usarlo. Il discorso è almeno in parte diverso per il Ppi, mai sciolto: il partito si era lamentato perché i giudici di fatto avevano invalidato il cambio di nome e gli accordi successivi, benché i Popolari non fossero parte del processo; le corti però hanno respinto le sue richieste perché quegli atti non erano stati invalidati, ma erano stati resi senza effetti solo tra le parti dei processi, mentre restavano validi per tutti gli altri soggetti e per lo stesso Ppi - ex Dc. Questo, per i più curiosi, potrebbe voler dire che, in realtà, il Ppi si chiama e si è sempre chiamato col vecchio nome di Democrazia cristiana, che dunque sarebbe ancora viva e vegeta».
Tutto questo, mentre l’Udc in parlamento continua a usare lo scudo crociato e, forse, potrebbe farlo anche alle elezioni...