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 2016  luglio 08 Venerdì calendario

STORIE VERE DI ITALIANI NEL PACIFICO PRIMA DI CORTO MALTESE


L’Oceano Pacifico è un luogo sottratto dal dominio della geografia e della realtà. Non ha un registro, se non quello della smisuratezza. Per indicarlo facciamo sempre ricorso all’eccezione: il paradiso terrestre. Con le sue isole, che sembrano svolazzi capricciosi disegnati su un’infinita distesa di blu, sovverte le regole dei cartografi. Per indicarlo l’abbiamo chiamato il grande continente, altre volte il continente invisibile – per i suoi abitanti è semplicemente wansolwara, letteralmente «un solo mare salato». Eppure questi mari del Sud, resi celebri dalle ardite gesta e dai paesaggi celestiali usciti dalle penne di Stevenson, Conrad, London, Melville e Somerset Maugham, sono anche pregni di cliché irriducibili. Sottratta la tara dell’esotico, anche noi della landa italica abbiamo un immaginario di quel mondo glorificato dalla sovrana lepidezza di Hugo Pratt. Il Corto Maltese protagonista del bellissimo Una ballata del mare salato mette in scena personaggi reali quanto iconografici di quei mari, muovendosi con disinvoltura fra «gli stupori di Stevenson e i grovigli psicologici di Conrad» scriveva Oreste del Buono.
Ma ci sono state anche persone in carne e ossa, italiani in rotta verso l’ignoto, che solcarono i mari per raggiungere gli angoli più lontani del Pacifico dove sino a quel momento pochi europei avevano osato abitare. E ora un libro, inatteso e curioso, racconta questi emeriti sconosciuti che sono andati a popolare una varia umanità fatta di esploratori e avventurieri, poveri cristi in cerca di fortuna e agitatori politici, l’audace compatriota che sposò l’ultima regina del regno delle Hawaii e quell’Odoardo Beccari, botanico fra Malesia e Borneo, che incontrò Darwin e a cui dobbiamo Sandokan grazie ai resoconti pittoreschi che mandava alle riviste dell’epoca e che servirono a Salgari come fonte d’ispirazione.
Si tratta delle Storie straordinarie di italiani nel Pacifico, curato da Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco (per le edizioni Odoya): qui si scoprono vicende degne dei migliori romanzi e che, minando l’ideale del paradiso lontano, raccontano ingiustizie e grandi sofferenze, piccoli eroismi e lotta per la sopravvivenza, sogni realizzati e infranti.
Come quelli degli emigranti veneti e friulani che s’imbarcarono, nel 1880, per l’altra parte del mondo mentre molti di loro finirono all’altro mondo. Venivano dalla miseria e andavano «a catàr fortuna», come dicevano. Erano stati sedotti dalle incantevoli promesse di un nobile bretone, Charles Marie Bonaventure du Breil, marchese de Rays, già al tempo descritto come un personaggio ridanciano: «dotato di due folti mustacchi, un vistoso papillon e un certo fascino malandrino». Ebbene il marchese aveva deciso che la Francia meritasse un radioso avvenire tropicale: così prese di mira la Nuova Irlanda (isola nell’arcipelago delle Bismarck, attualmente nella Papua Nuova Guinea) e la battezzò Nuova Francia. Se ne autoproclamò re; ma dopo un po’ il titolo non gli bastava, perciò si promosse imperatore d’Oceania. Il marchese (pardon, imperatore) descriveva l’isola come una terra di buon clima, belle baie e brezze gentili. Così iniziò a vendere le terre ai futuri coloni. Ma era una truffa: anziché terre incantevoli questi si ritrovarono in mezzo a terreni desolati e paludosi, circondati da indigeni antropofagi. I veneti e i friulani provarono a disboscare e coltivare, ma era impossibile: dopo quattro mesi si contavano un morto ogni tre giorni. Così i circa trecento superstiti decisero di riprendere il largo, stavolta per il Nuovo Galles del Sud, dove in soli otto anni, nel 1889, fondarono la prima comunità italiana in Australia col nome «Cèa Venessia», la piccola Venezia.
Infine ci sono storie che hanno dell’incredibile. Come l’affascinante vicenda di Celso Cesare Moreno: un affabile poliglotta (conosceva dodici lingue) che aveva partecipato ai moti di Sumatra contro gli olandesi e a quelli indiani contro l’impero britannico. Quando mise piede la prima volta a Honolulu aveva già girato tre continenti. Ispirò subito le simpatie del monarca hawaiano che lo scelse come amico e confidente. E così Moreno, grande stratega di geopolitica ante litteram, iniziò a lavorare come un Machiavelli sedotto dalla modernità elettrificata da Edison. I suoi progetti erano ambiziosi: la costruzione del collegamento telegrafico fra Stati Uniti, Hawaii e Filippine; o anche l’alleanza pan-polinesiana con centro a Honolulu. Idee che gli valsero la nomina di primo ministro e ministro degli esteri. Era l’agosto del 1880.
Ma il popolo si divise sullo straniero: alcuni lo additarono come capro espiatorio d’ogni male ed ecco allora che un giorno si ritrovò a dover scappare da una folla che voleva linciarlo. Il re chiese all’amico di dimettersi e partire. E lui morirà, povero e disilluso, a Washington. Dopo esser stato, per soli cinque giorni, il capo di governo delle Hawaii.
Diversa sorte toccò a Giulio Masasso, arrivato nei mari del Sud come bracciante. La fatica e il clima, per lui piemontese che odiava il mare, lo fiaccavano. Così decise di sfruttare il talento per la cucina. Gli inglesi, suoi datori di lavoro, accettarono di buon grado di cambiargli mansione in cambio di prelibati manicaretti. E da quel momento il cibo diventò il motore dei suoi spostamenti sin negli angoli più remoti del Pacifico. Finì nel 1944 alle isole Fiji e qui, ancora una volta, fece valere un altro suo talento: il pollice verde. Veniva dalla vita contadina e aveva visto padre e nonno coltivare viti e tabacco. Era figlio del sapere contadino. E guardando aveva imparato. Lì era impossibile far crescere le piante, fra cicloni e salinizzazione. Ma lui ci riusciva. Si propose quindi ai britannici come esperto. E fu l’inizio di una carriera luminosa: dopo qualche anno la regina di Tonga mandò il suo ministro degli esteri a cercare un agronomo a cui affidare tutte le terre dell’isola, e Masasso era l’uomo giusto. Divenne amico intimo dei reali e lo stratega di tutta la riconversione agricola di queste isole.
Un’accolita di viaggiatori, diversissimi fra loro, eppure tutti «gentiluomini di fortuna» – per usare la felice espressione con la quale Hugo Pratt indicava il suo personaggio. Ciò che lega i protagonisti di queste fantastiche biografie è la posa, il portamento alla Corto Maltese: non sono né epigoni né emuli, ma come lui questi nostri compatrioti sono antieroi, o meglio non sono eroi. Ai quali, come fa questo bel libro, va riconosciuto un ruolo che la storia aveva trascurato.
Marco Filoni