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 2016  luglio 08 Venerdì calendario

UN CANESTROPIENODI PENSIERI


A pochi istanti dalla fine della già leggendaria gara 7 delle Nba Finals 2016 tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers, sul tremebondo punteggio di 89 pari, Andre Iguodala dei Warriors parte in contropiede e appoggia al canestro per segnare, non fosse che: «... si oscura la vallata! Cos’ha fatto Lebron James!! Quella è una Gioconda, non una stoppata!!», grida il telecronista Flavio Tranquillo, con la voce concitata e commossa di chi ha appena assistito a un autentico miracolo.
Milanese, 54 anni, Tranquillo da 25 fa il telecronista, ma col tempo è diventato molto di più: l’uomo grazie al quale gli spettatori italiani hanno imparato ad apprezzare, in un modo che definiremmo «culturale», questa disciplina sportiva nella dimensione del contemporaneo.
«È uno stile di conduzione che mi viene naturale al cento per cento» racconta lui. «È stata una mia evoluzione e ci finiscono dentro tanti fattori che m’interessano, al di fuori di questo sport: a forza di conoscere cose nuove, il magazzino dell’esperienza si amplia. E poi c’entra molto l’aver lavorato per anni con Federico Buffa», e questo è un doveroso omaggio all’amico-collega con cui Tranquillo a lungo ha diviso i microfoni e che per primo ha istillato nella cronaca di eventi di questo genere, la narrazione di scenari socioculturali di tutt’altra matrice. «Quando risento le cose vecchie, non mi riconosco. Ma voglio citare anche Dan Peterson: è stato lui il primo a capire che durante una telecronaca si potevano introdurre altri argomenti, ben oltre il match di giornata». Di fatto, col consolidarsi della carriera e con l’evoluzione del suo rapporto col basket, vivisezionato in ogni particolare, Flavio ha prodotto un rinnovamento del linguaggio della telecronaca sportiva (proprio come quella stoppata di LeBron, che per lui diviene una vallata che piomba nelle tenebre: roba da Orlando Furioso): «Come la faccio io, la telecronaca è ad anni-luce da ciò che insegnano nelle scuole di giornalismo. Ad esempio, coi miei partner, Buffa prima e Davide Pessina ora, non c’è una divisione dei compiti tra chi fa il play by play e chi l’analista». Ci sono due sensibilità al lavoro e un dialogo che talvolta lascia spazio agli assoli. «Le Finals di quest’anno, per dirne una, sono state una festa per chi va a caccia di storylines, di sceneggiature dentro l’evento sportivo. Per me, ad esempio, la valenza narrativa della sfida 2016 è stata quella che non si deve continuare a credere che una cosa già successa dieci volte succederà anche l’undicesima, come se parlassimo di meccanica quantistica. In gioco ci sono infiniti fattori: le condizioni di spirito, le motivazioni, le ruggini tra gli uomini. E può succedere che la squadra che gioca la pallacanestro meno completa batta l’altra, perché vive il suo momento magico».
Si direbbe che Tranquillo cerchi nel racconto del basket motivazioni e connessioni che sfidano i parametri dello spazio e del tempo. Lo si capisce anche sfogliando Basket R-Evolution (Baldini&Castoldi, pp. 294, euro 16), il suo nuovo libro che, anziché essere la prevedibile biografia illustrata di un campionissimo, è un viaggio alla scoperta di quelli che gli americani chiamano unsung heroes, gli eroi nascosti o poco celebrati, che pure hanno offerto un contributo umile ma indelebile al progresso sportivo – e non solo a quello. «Se racconti lo sport, quando scrivi un libro devi offrire qualcosa in più: un libro su Curry o su LeBron sarebbe stato il derivato del lavoro di altri cronisti. Qui invece c’è un’opera di ricerca profonda. Racconto cose che non possono più essere raccontate in prima persona perché i protagonisti sono scomparsi, lasciando vaghe tracce. Da loro c’è tanto da imparare. E credo che il rispetto per le cose del passato debba essere sacro». I nomi di Kenny Sailors, Jack Molinas o Pete Newell diranno poco anche agli appassionati di basket. Ma Flavio riporta a galla i valori intangibili delle loro esperienze. E tra le storie di Basket R-Evolution ce n’è una che ha l’aria d’essere la madre di tutta la narrativa dei canestri.
È la vicenda dei New York Renaissance, altrimenti noti come i NY Rens, prima squadra di basket professionistico interamente composta da afroamericani, fondata dall’imprenditore caraibico Bob Douglas nel 1923 e protagonista della più straordinaria epopea del basket, per i significati agonistici e per l’impatto socioculturale che ha avuto sull’America del tempo: «Scenari incomparabili col basket del XXI secolo» dice Tranquillo. «In ogni cosa: dalle scarpe che usavano, alla pallonessa più grande di quella di oggi, dalle superfici sui cui si disputavano le partite, a quello che, soprattutto, c’era tutto intorno». Dei NY Rens si era già occupato, col libro On The Shoulders Of The Giants e con l’omonimo film, Kareem Abdul-Jabbar, il più forte giocatore degli anni 70-80 e oggi uno dei più sagaci osservatori della storia afroamericana. Tranquillo, nella sua ricostruzione, ci mette qualcosa in più: lo sguardo dall’esterno, affettuoso ma attento a comprendere come la saga di questi giganti contenga l’origine di ciò che lo sport professionistico sarebbe divenuto per i neri e non solo: l’occasione per il riscatto sociale, il prodigio dell’opportunità insperata. «Lo sport ha un potere imbattibile» riprende Flavio. «Quale evento non sportivo convince migliaia di persone di un paese lontano a rimanere sveglie per tutta una notte, perdendo il sonno per esserne testimoni? Non un Re Lear o un’esecuzione della Nona, purtroppo. Allora, quando una squadra di neri dimostra sul campo d’essere più forte di una squadra di bianchi, la notizia costituisce indubbiamente la tappa importante di un percorso evolutivo».
Chi erano i NY Rens? All’inizio degli anni 20 ad Harlem fiorisce un movimento intellettuale pomposamente chiamato Renaissance, che si occupa di ridefinire l’identità culturale afroamericana. Il quartiere è la culla del «New Negro», il nuovo uomo nero pronto a superare lo shock della schiavitù e a tradurre la disillusione sociale in orgoglio razziale. Il Rinascimento di Harlem è fatto di letteratura, teatro, della musica di Duke Ellington. Ed è fatto di luoghi come i Casino, i divertimentifici del tempo, dove i neri della zona mangiano, danzano, giocano d’azzardo e socializzano. Quando apre il Renaissance Casino and Ballroom, all’incrocio tra la 138esima strada e la Settima Avenue, Bob Douglas, che ha messo insieme i migliori talenti del canestro della zona, offre ai proprietari un affare: ribattezzerà la compagine col nome del Casino e giocherà le sfide con le migliori formazioni bianche e nere sul lucido pavimento della sala da ballo. In cambio della pubblicità che il Renaissance ne ricaverà, chiede una percentuale sugli incassi e il diritto di allenarsi sul posto. Nasce la leggenda: i Rens diventano popolarissimi, migliaia di persone corrono a vederli e, prima e dopo le partite, il pubblico invade il campo perché l’orchestra comincia a suonare ed è il momento di ballare. Clarence Fats Jenkins, Pappy Ricks, Eyre Saitch, Charles Tarzan Cooper, Wee Willie Smith sono le stelle dei Rens che vagano di partita in partita per gli Stati dell’est, del midwest e del sud segregazionista, ben pagati ma male accolti da albergatori, ristoratori e benzinai, che si rifiutano di rifornire il serbatoio del pullman con cui quei negroes consumano le strade d’America. Douglas detta una regola: i Rens devono sempre comportarsi cavallerescamente. Devono essere la prova tangibile che i neri conoscono la regola sociale meglio dei bianchi. Senza sottrarsi al piacere di batterli. La storia dei Rens parla di 2.500 partite vinte e solo 500 perdute. Con la loro qualità atletica, ma anche con la civiltà della loro condotta, gli atleti in maglia blu-oro diventano il passaggio indispensabile per indurre le nascenti leghe professionistiche a mettere fine alla segregazione. «In un certo senso oggi i termini sono ribaltati» commenta Flavio. «L’Nba ora è composta all’80 percento da atleti neri, governati al 90 percento da bianchi. La quantità di risentimento in circolo non è minore di ieri. Ma almeno adesso dormono tutti nello stesso albergo e mangiano nello stesso ristorante. Anche se c’è ancora tanta strada da fare».
In chiusura chiediamo a Tranquillo un parere personale sull’esito delle Finals, con il trionfo così blue collar di Cleveland, ai danni del fighettismo modernista dei Guerrieri di San Francisco, guidati al disastro dal neo-divo Steph Curry, con tutte le polemiche che sono seguite: «È l’esempio di come in pochi giorni il percepito che circonda certi protagonisti delle cronache possa cambiare radicalmente. Basta osservare il modo in cui, nelle stesse ore, abbia perduto Matteo Renzi e sia crollato Stephen Curry».
Subito si schermisce: ovviamente il paragone è del tutto improprio. Ma no, invece è geniale. Anzi, il confronto sui diversi pericoli che possono bruciare la coda ai protagonisti di un’ascesa vertiginosa, ce lo segniamo. Matteo Renzi e Steph Curry: un esempio di come nella testa di Flavio Tranquillo si accendano connessioni lapidarie e folgoranti, anche tra vicissitudini lontanissime. Del resto non è questo il bello e il talento della diretta?
Stefano Pistolini