Stefano Ferrio, il venerdì 8/7/2016, 8 luglio 2016
E ANCHE LA BASE USA È INDAGATA
Quei rumori sembrano far parte di una sceneggiatura cinematografica: urla, sirene, barelle. Non è una semplice rissa: ma una battaglia. Maggio scorso, il set è la discoteca Liv, in provincia di Vicenza. Africani da una parte, americani dall’altra, coltelli nel mezzo. Bilancio due feriti gravi e manette per tredici, tutti militari delle forze armate statunitensi. Nessuna sorpresa per chi, abitando nel Vicentino, soprattutto negli ultimi tempi si è abituato a collegare i soldati yankee a cronache legate a stupri seriali, suicidi, cyberbullismo dilagante, motociclisti folli, o bombe «dimenticate» fra le primule.
Questa ambientata in discoteca è infatti solo l’ennesima puntata di un American Horror Story che, a differenza della serie seguita in tutto il mondo, nessuna rete televisiva trasmette. Con la particolarità di essere, da ormai sessant’anni, interamente ambientata a Vicenza, la città più «americana» d’Italia, al punto da finire ritualmente in liste di possibili obiettivi di Isis, come hanno avvertito, il 20 giugno scorso, i servizi segreti della Corea del Sud.
Guardando alla Storia, la prima base, gigantesca e totalmente urbanizzata, si chiama caserma Ederle, e lì si trova, alla periferia est di Vicenza dal 1956, albori della guerra fredda. Da cinque anni occorre aggiungervi una seconda caserma. Renato Del Din, sorta sul terreno di
quell’ex aeroporto Dal Molin che ispirò a suo tempo il nome del movimento «No Dal Molin», entrato nella storia recente del pacifismo italiano. Il totale fa cinquemila uomini e donne «d’assalto», inquadrati per buona parte in brigate avio-trasportate che significano prima linea: esercitazioni estenuanti, e missioni sempre dietro l’angolo, soprattutto nella stessa Africa dei ghanesi menati in discoteca. Con carichi di tensione, e relative scariche nell’alienazione, difficilmente immaginabili.
Le conseguenze sono «bombe» che continuano a deflagrare nelle cronache. Come i 15 anni di galera finora cumulati per stupro dal parà Jerelle Lamarcus Gray, lasciato libero di aggredire altre tre giovani donne dopo una prima condanna per la violenza carnale commessa ai danni di una prostituta romena incinta. Come la «funzionante» mina antiuomo abbandonata in un fiorito bosco di primavera da un altro paracadutista che la deteneva illegalmente. Come l’auto dei carabinieri centrata a folle velocità dal Suv di un militare americano. Come il ventiduenne soldato di origini vietnamite assente all’adunata mattutina della Del Din, perché nel frattempo moriva, per cause da accertare, nell’intimità del suo alloggio.
Per non parlare delle forsennate scorribande motociclistiche da attribuire al 33enne Eddy McMahel a cui la Polstrada ha dato la caccia per mesi osservando i video che lo stesso militare, in arte Max Wirst (a tutto gas), postava su Facebook riprendendosi con una telecamera inserita nel casco. Fughe incontrollate e irresistibili dalla normalità a cui non si sottraggano nemmeno gli alti ufficiali, come il colonnello David Buckingham, ex comandante dell’intera guarnigione americana a Vicenza, trasferito di imperio ad altra sede dopo avere concluso l’Independence Day del 2013 facendosi inseguire da carabinieri e Military Police che lo avevano sottoposto ad alcoltest.
«Bisogna ricordare che le forze armate americane sono costituite esclusivamente da personale volontario, per la maggior parte spinto a indossare la mimetica da motivazioni di sussistenza, e non certo da spirito patriottico» commenta l’ex generale Fabio Mini, fra il 2002 e il 2003 comandante della Missione internazionale KFOR in Kosovo, e oggi scrittore e saggista. «Ho cognizione di chi si presenta ai bandi di arruolamento, compresi i ragazzi che, come referenza principale, dichiarano di essere diventati formidabili cecchini giocando alla guerra davanti alla Playstation. È ovvio che quando sei alle prese con un brodo culturale del genere, devi vigilare su cosa si muove sulla sua superficie e, soprattutto, in profondità».
La vigilanza di cui parla Mini si estende negli ultimi anni ai mondi virtuali, nuovo terreno minato, dalle dimensioni potenzialmente illimitate. Dove chiunque, dall’esterno, può «pescare» impunemente tra frustrazioni e deliri di onnipotenza per infiltrarsi all’interno di meccanismi gerarchici e relazionali tutt’altro che blindati, come invece dovrebbero essere, in ossequio ai basilari principi della security.
Per rendersene conto basta solo fare una capatina su Facebook alla pagina aperta lo scorso gennaio con il nome Caserma Ederle/Del Din Confessions, il cui amministratore garantisce il più assoluto anonimato a qualunque militare voglia affidargli una delle proprie confessions. Queste ultime godono di una protezione legate alla privacy, ma una semplice lettura di quanto viene postato nella home page è sufficiente per captare gli argomenti più trattati: denunce di stalking, violente minacce fra donne a proposito di un «lui» conteso, cameratesche esplosioni di «libido». A questo ginepraio di post e messaggini rimanda il ritrovamento del cadavere di Kiley Williams, soldato di 22 anni, impiccatosi nel suo alloggio alla caserma Ederle. Il giorno dopo, sulla pagina Facebook degli americani a Vicenza, per alcune ore compare quello che ha tutta l’aria di essere il suo addio, traboccante di denunce contro la derisione continua di cui un carattere troppo sensibile era oggetto nei social network.
Il tempo di essere letto da qualcuno, e il messaggio, giudicato evidentemente troppo scottante, sparisce. Roba di pochi giorni dopo, resta invece agli atti il video che, sempre postato su Facebook, mostra schianto di ben tre jeep Humvee, paracadutate al suolo durante un’esercitazione tenuta in Germania da personale della 173a brigata avio-trasportata di stanza a Vicenza. Ogni botto viene accompagnato da fragorose sghignazzate.
Qualsiasi indagine venga istruita su fatti del genere rischia comunque di sgretolarsi fra i cavilli della Convenzione di Londra del 1951 dove, all’articolo 7, si contempla che i militari della Nato siano processabili tanto nel Paese d’origine che in quello dove sono in servizio.
Un «mal di naja» made in Usa sempre più preoccupante. Disagi di cui sanno come approfittare i tassisti africani abusivi che portano in giro clienti yankee fra un topless-bar e una sala giochi, garantendo loro prezzi bassi, assenza di tassametro, e «additivi» nascosti nel cruscotto.
Sono tutti fraine di un American Horror Story che sembra profetizzato fra le righe di De America, reportage d’autore pubblicato nel 1952. Dove si legge: «Che l’America sia un Paese tuttora in gran parte inconscio a se stesso, l’ho ripetuto molte volte; vorrei aggiungere che anche il resto del mondo è di fronte all’America in situazione non diversa da quella degli americani. Il mondo contiene l’America, ma la “sa” poco o male». Parole vergate da un grande scrittore, di nome Guido Piovene. Nato, non a caso, a Vicenza.
Stefano Ferrio