Piero Melati, il venerdì 8/7/2016, 8 luglio 2016
ATTILIO GIORNALISTA AGLI ANTIPODI
[Attilio Giordano]
ROMA. La banda Giordano. Questo eravamo. Scrivere sul direttore del Venerdì, il giornale che avete in mano, e che lui ha costruito esattamente come lo avete in mano, rende obbligatorio applicare le sue regole. Anche rischiando un profilo fuori posto. «Pubblica solo quel che tu stesso leggeresti» era una regola. Un’altra diceva: «In un articolo metti in luce le cose che, tornando da un servizio, racconti per prime a tua moglie, perché se le racconti vuol dire che sono le più curiose che hai trovato».
Per Attilio non c’erano argomenti tabù. C’erano solo storie, noiose o interessanti. Così non ce ne voglia se lo tradiamo: lui non avrebbe gradito il suo ritratto. Ne aveva scritti a sua volta, ma raramente e con riluttanza. Non riteneva così importanti l’ego, i problemi personali, le memorie private. Anzi, gli sembravano inadeguate tutte le forme di retorica e showbiz. Tra esibirsi e informare, non aveva dubbi su cosa prediligere.
Tutto inizia con l’eleganza. Attilio ha sempre vestito in stile british. E in lui la forma era sostanza: dava del «lei» a ogni nuovo interlocutore, a prescindere dall’età. Non era tipo da pacche sulle spalle. Esprimeva l’affetto o la simpatia con sobrietà. Anche per via dell’educazione ricevuta. L’amato padre, tra le altre cose, gli aveva lasciato in eredità tre smoking. Ma poi il genitore, prima di morire, aveva chiesto di essere sepolto in un semplice sudario. Lo stesso ha fatto Attilio. Non si è voluto mettere in ghingheri, per l’ultimo viaggio. L’eleganza formale era solo un gioco che serviva a ingannare la vita. Ma quel dandismo non andava oltre. Il resto era uno stile simile alla pelle. Se uno ce l’ha è perché se lo porta dentro, e prescinde dall’abito apparente. Anche se l’apparenza, la gentilezza, la buona educazione, possono contribuire a potenziarlo.
Era nato in Sicilia, poi la famiglia si era dovuta trasferire al Nord. Ha iniziato a fare il giornalista a Genova. Così è diventato un sangue misto: un meridionale che si imbeve della cultura del Nord. Da allora vedrà sempre le cose fatalmente da un doppio punto di vista, temperando ogni eccesso etnico.
Al Venerdì approda nel 1993, come inviato. Negli anni successivi il magazine verrà diretto da Laura Gnocchi, di cui diventerà il più stretto collaboratore. Ma i primi anni sono quelli delle grandi inchieste e dei servizi all’estero. Infine, diventerà direttore, e vi resterà in carica fino al suo ultimo giorno. Uniformando al suo stile le 146 pagine e oltre che ne hanno fatto, a detta di tanti, il primo news magazine italiano.
Lo stile. Quello che uno si costruisce dentro. E che, per esempio, impediva ad Attilio di concepire il potere come una forma di supremazia sugli altri. Al contrario, la gentilezza e la delicatezza erano i tratti che esprimeva verso chiunque di noi avesse un problema, personale, di salute o del mestiere. I colloqui di lavoro, poi, sono sempre stati sgombri da ogni forma di cattiveria. Sapeva ascoltare, aveva fiuto per le novità (ne «vedeva un titolo» come si dice in gergo), amava indirizzare e consigliare, migliorando la riuscita del prodotto. Non uno dei suoi interlocutori, pur nel caos che impronta il lavoro giornalistico, potrà dire di essere stato trattato da lui con sbrigativa sufficienza.
Eppure Giordano non era un buonista. Spesso il parlar chiaro gli è costato. Ma raramente vi ha rinunciato. Diceva quello che pensava, senza tanti inganni. Spesso anche pubblicamente. E lasciava scrivere, potete verificare, ogni notizia, senza paura di inimicarsi potenti o di «sbagliare politicamente».
Certo che aveva dei difetti. Su uno di questi lo prendevamo in giro: non c’era quasi luogo dove si recasse uno dei nostri inviati nel quale lui non era già stato, o diceva di essere stato. Ma spesso era vero, aveva ragione lui. L’incontro con foche e pinguini, dopo avere soggiornato in tenda per giorni al Polo Sud, era documentato dalle foto, così come i fermi di polizia da parte delle autorità nel corso delle sue inchieste nella ex Jugoslavia, nei Paesi arabi oppure oltre cortina, ai tempi in cui il Muro di Berlino non era ancora stato abbattuto.
Non nutriva alcuna nostalgia dei tempi andati. Ma una delle sue «battute-tormentone» era l’idea di rimettere in piedi lo schema dei Quattro dell’Oca selvaggia, un film d’azione del 1978 con Richard Burton e Roger Moore, storia di un gruppo di veterani mercenari che si riuniscono un’ultima volta per una spericolata azione di guerra: salvare dalla prigione di una dittatura un ex presidente democratico di uno Stato africano.
Il cinema era la sua passione (da quello «alto» a 007 e supereroi) come i viaggi con la famiglia: l’amata moglie Terry, gli adorati figli Antonio e Maria sono stati spesso trascinati in India, sulle ali di una suggestione che sembrava figlia tanto della cultura dell’impero inglese verso l’Oriente quanto del giornalismo dei Kapuscinski, Terzani, Valli, una forma di «fare il mestiere» che Attilio aveva direttamente conosciuto e praticato. Amava le fiction tv (da 24 a Breaking Bad) e i fumetti (Dylan Dog su tutti).
L’altro grande amore erano i libri. Cervantes e Simenon (non solo Maigret), Balzac, Borges e Stephen King (lo riteneva il grande romanzo americano). Imponenti le sue biblioteche nella casa del centro storico di Roma così come nella sua stanza al Venerdì. Proverbiale la sua generosità nel regalarli, avendo del dono un concetto semplice, biblico e antico, che esprimeva «pace tra gli uomini».
Non capiva perché i giornalisti scrivessero libri. «Perché non fanno il loro mestiere? Sono giornalisti». Se perdonava i volumi d’inchiesta (non solo di attualità ma anche i grandi reportage letterari, scientifici o storici) non ne ha mai compreso l’ansia da romanzieri, l’esigenza di rappresentarsi. Lui preferiva scomparire, per dare spazio al mondo.
Per tredici anni, dopo un’operazione, ha combattuto contro il cancro senza mai farlo pesare, non solo agli altri ma anzitutto a se stesso. Ha vissuto la sua vita senza farsene minimamente condizionare, pur senza fabbricarsi vie di fuga: né consolazioni religiose né dogmi scientisti. Ma la natura, il carattere, le esperienze professionali avevano fatto in modo che la sua visione dell’esistenza, disincantata ai limiti del cinismo, non fosse piatta. Sapeva di mafia e antimafia quanto maneggiava la politica, conosceva l’esoterismo di Eliade e Guenon come i delicati equilibri vaticani. Amava i poeti ed era stato batterista di una band.
Qui al Venerdì siamo stati sommersi da messaggi di editori, operatori culturali, artisti, scrittori, colleghi, lettori. Alcuni hanno pianto insieme a noi. Li ringraziamo dal nostro cuore straziato. A proposito, il soprannome di Attilio Giordano era Attila. Non si è mai saputo perché. Forse perché era buono.