Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 08 Venerdì calendario

UNA GRANDE OPPORTUNITÀ PER L’ITALIA – Germano Dottori 1. Il voto britannico dello scorso 23 giugno ha forse posto nelle mani del nostro paese un paio di splendide carte da giocare per migliorare la propria posizione nello scacchiere internazionale

UNA GRANDE OPPORTUNITÀ PER L’ITALIA – Germano Dottori 1. Il voto britannico dello scorso 23 giugno ha forse posto nelle mani del nostro paese un paio di splendide carte da giocare per migliorare la propria posizione nello scacchiere internazionale. Salvo ripensamenti – sempre possibili, a quanto pare, visto che c’è già chi nel Regno Unito si è messo in moto per ottenere un nuovo referendum o quanto meno per negare l’efficacia di quello appena svoltosi – l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea dovrebbe in effetti comportare una rivalutazione del peso geopolitico italiano nelle istituzioni comunitarie. Se il buongiorno si vede dal mattino, le consultazioni circoscritte ai paesi fondatori delle Comunità europee e l’invito rivolto da Angela Merkel e François Hollande a Matteo Renzi costituiscono segnali importanti[1]. L’Unione sta studiando le contromosse da adottare nei confronti dei ribelli d’Oltremanica, con l’intento di elaborare una risposta complessiva che renda chiaro a tutti gli alti costi che un eventuale abbandono dell’Europa comunitaria comporta. Alle classi medie in sofferenza nei paesi più inquieti del continente si vorrebbe dimostrare che l’uscita dall’Ue non è una passeggiata ed è anzi una terapia dal prezzo imprevedibile. Perché tuttavia la reazione sia credibile, è necessario che poggi sulla solida intesa degli Stati maggiori rimasti dentro l’Unione. In questo contesto, l’Italia assume una nuova rilevanza. Proprio per questo motivo, il nostro governo dovrebbe finalmente essere in grado di negoziare quella flessibilità di cui ha bisogno affinché la debole ripresa in atto nello Stivale possa consolidarsi e accelerare. Tedeschi e francesi dovrebbero concedergliela, anche per rafforzare l’appeal complessivo della famiglia comunitaria nei confronti di chi manifesta in questo periodo un crescente scetticismo. Non è però questo l’asset maggiore che il voto britannico parrebbe aver consegnato al nostro paese: è infatti destinato a pesare molto di più in nostro favore il fatto che gli Stati Uniti abbiano perduto con il Regno Unito il più efficace vettore d’influenza di cui disponessero dentro l’Unione Europea. Questo ruolo è ora scoperto. È improbabile che Washington immagini di rimpiazzare la Gran Bretagna con la Polonia, anche se non mancherà qualcuno che ci penserà o lo proporrà. Varsavia ha in effetti molti amici e solidissime credenziali sul versante atlantico, ma il suo peso in Europa non è paragonabile a quello dell’Italia, che agli americani offre anche un più convincente supporto nel loro tentativo di spalancare ai turchi le porte dell’Europa comunitaria. La Germania e la Francia non sono sempre allineatissime agli Stati Uniti, sono, anzi, costantemente osservate da Washington nel tentativo di prevenirne le eventuali fughe in avanti. Gli americani guarderanno quindi a noi con rinnovato interesse e per una volta non tanto e non soltanto per monitorare alcune bizzarrie della nostra politica estera, quanto per creare un contrappeso all’asse renano che rimpiazzi quello venuto meno dal lato atlantico con il Brexit. Al contrario di quanto si legge in questi giorni, peraltro, il fattore britannico non sparirà completamente dalla strategia globale statunitense: il Regno Unito, infatti, continuerà a essere un partner di Washington in molte aree del mondo, oltre che un solido pilastro della Nato. Ma non all’interno dell’Unione Europea. Questa delicata funzione spetterà a noi, se la vorremo esercitare e se saremo in grado di elaborare una relazione bilaterale con gli americani che soddisfi al massimo gli interessi reciproci. 2. L’uscita di Londra dall’Unione Europea ha fatto dell’Italia il terzo grande d’Europa, concretizzando, per default altrui una grande ambizione della nostra diplomazia repubblicana. Occorre adesso capire in che modo potremo sfruttare questa posizione. Finora, l’atteggiamento prevalente delle istituzioni europee nei nostri confronti non è stato propriamente amichevole. Sovente siamo stati messi sotto esame, il più delle volte con una rara arroganza che di recente abbiamo cercato di ricambiare a modo nostro. Con Matteo Renzi, infatti, per lunghi tratti la nostra politica europea ha infranto un tabù, contrastando la Commissione e sostenendo i tentativi francesi di riequilibrare la distribuzione intracomunitaria del potere politico. I risultati di questa strategia sono stati tuttavia alquanto deludenti, perché mentre aprivamo politicamente alla Francia, ampi spezzoni del sistema produttivo italiano finivano nelle grinfie dei famelici competitori d’Oltralpe: dalle Assicurazioni Generali a Telecom Italia, dalle banche in crisi all’azienda che gestisce la rete ferroviaria italiana. L’attacco agli istituti di credito, che persiste, è fra tutti quello potenzialmente più insidioso dal punto di vista della difesa delle residue capacità italiane di finanziare con risparmio nazionale la ripresa del nostro paese. Quote significative dei nostri depositi giacenti nelle banche passate sotto controllo francese, come Cariparma, sono infatti già state utilizzate per finanziare operazioni ostili ai nostri interessi. È quindi di straordinaria importanza che non si verifichino ulteriori cedimenti, se non si vuole che il nostro risparmio diventi una risorsa a disposizione dei nostri competitori, magari per sostenere progetti che ci danneggiano. Inoltre, nel Mediterraneo i francesi hanno continuato a coltivare ambizioni sulla Libia poco compatibili con i nostri disegni, inducendo progressivamente Palazzo Chigi e Farnesina a un certo ripensamento dei nostri allineamenti regionali: con americani, inglesi e turchi abbiamo infatti appoggiato l’insediamento di Fàyiz al-Sarràg a Tripoli, mentre Parigi rimaneva ancorata a Tobruk e all’Egitto. La nostra promozione di status in Europa deve essere ora sfruttata innanzitutto e soprattutto per fermare la grande rapina che sta avvenendo ai nostri danni. Deve esser concesso al nostro paese un margine di manovra entro cui ricominciare a svilupparsi. Ciò significa in primo luogo esigere dai tedeschi che la Commissione cessi di emettere periodici allarmi sulla solvibilità del debito sovrano italiano, che servono solo ad alimentare la frenesia di svendere, a vantaggio dei cugini francesi e di chiunque si affacci da noi con dotazioni di capitale, come Cina e Qatar. Dovrà attenuarsi anche la pressione su Mario Draghi. Quanto agli Stati Uniti, dovrà esser fatto capire loro che un’Italia debole non rientra più in alcun modo nei loro interessi e che quindi ci attendiamo valutazioni più benevole dalle loro agenzie di rating. È del resto molto probabile che se ne siano ormai già persuasi da soli, come prova la circostanza che un investitore del calibro di BlackRock abbia confermato la propria fiducia nel nostro paese, forse anche per bilanciare la crescente presenza in Italia dei fondi cinesi. Abbiamo bisogno del sostegno americano ed è probabile che ora lo si possa ottenere a buone condizioni, che non limitino oltremodo la nostra Ostpolitik cara a Renzi non meno di quanto lo fu a Berlusconi. A questo proposito, non vi è dubbio che la cornice ideale sarebbe rappresentata da una presidenza Trump. Con Hillary Clinton, infatti, molto verosimilmente l’Italia non godrebbe della stessa libertà e sarebbe probabilmente anche costretta ad assecondare un’agenda che promuovesse cambiamenti di regime poco compatibili con la nostra nota aspirazione alla distensione nei rapporti con la Russia. 3. Tutto questo presuppone, naturalmente, non solo che non si verifichino ripensamenti britannici accettati dalle controparti comunitarie, ma anche che il calcolo razionale delle opportunità non ceda il campo alle reazioni più istintive e irrazionali, parse a tratti dominare il dibattito a caldo sugli esiti del referendum svoltosi lo scorso 23 giugno. Il voto del Regno Unito è stato vissuto emotivamente come pochi altri avvenimenti recenti esterni al nostro paese. Ciò è accaduto non solo perché quanto si verifica in Gran Bretagna ha comunque grande risonanza nel mondo, ma perché anche da noi l’adesione all’Unione Europea e soprattutto all’euro è fortemente discussa. I tempi in cui il sostegno alla causa dell’integrazione rasentava percentuali bulgare sono ormai passati. Al dibattito inglese ci si è quindi accostati quasi come se fosse un confronto all’interno del nostro paese. E nella valutazione degli effetti del Brexit questo è un dato di cui occorre tener conto. A definire la nostra probabile reazione al Brexit non basta quindi il compiacimento per quanto, senza colpo ferire, abbiamo ottenuto nell’arena della grande politica internazionale in seguito al «gran rifiuto» del Regno Unito. È invece necessario inserire nel calcolo anche quanto sta succedendo nella nostra società e nel sistema politico che ne interpreta le pulsioni. Qui il quadro si complica sensibilmente. Perché anche le forze politiche che negli ultimi anni hanno battuto maggiormente il tasto della polemica anti-europea per intercettare i voti di protesta di una classe media sempre più sotto pressione, sono parse esitanti e insolitamente prudenti di fronte all’enormità di quanto accaduto Oltremanica, quasi temessero di non esser seguite fino in fondo in un eventuale percorso di uscita dall’Europa comunitaria. È un segno di maturità, questo, che si lega verosimilmente anche alla volontà di trasformare in proposta di governo credibile per l’Italia programmi che sono stati finora costruiti soprattutto per abbracciare il maggior numero di scontenti. L’adattamento più vistoso allo shock del Brexit lo ha compiuto il Movimento 5 Stelle, nato con un’agenda fortemente euroscettica e ostile alla moneta unica, individuata da Alberto Bagnai come la causa di tutti i mali dell’economia del nostro paese, e ora attento a circoscrivere i propri dubbi all’attuale configurazione dell’Europa: come riconoscere che l’Unione Europea può anche essere un bene, se ricostruita intorno a nuovi princìpi. Anche la Lega è tornata a distinguere tra un’Europa dei popoli, buona, e quella della finanza e delle tasse, da combattere con ogni mezzo possibile e soprattutto con dosi crescenti di consultazioni popolari, che restituiscano all’Unione Europea parte almeno di quella legittimità che avrebbe progressivamente perduto. Non è in effetti difficile vedere, in queste risposte, la volontà di strizzare l’occhio all’elettore mediano, decisivo nelle competizioni serrate che si svolgono nei sistemi elettorali maggioritari, ma anche per costruire leadership di schieramento su basi più solide, come sta cercando di fare Matteo Salvini dentro il centro-destra. 4. Questo processo rimane tuttavia precario ed esposto alle fluttuazioni degli umori di quella classe media che è all’origine delle grandi sorprese elettorali che stiamo osservando in tutto l’Occidente. Se la ripresa non si consolidasse, o per altre ragioni il quadro politico nazionale venisse alterato chi un nuovo shock esterno, magari da un voto negativo il prossimo autunno alle riforme costituzionali appena approvate dal nostro parlamento, la tentazione di scommettere sulla radicalizzazione delle proposte politiche potrebbe in effetti tornare forte. Tutto diventerebbe passibile, anche una discontinuità della nostra partecipazione al processo di integrazione europea. Uno scenario su tutti accelererebbe la corsa dell’Italia verso una politica di rottura: una crisi del governo Renzi innescata dalla possibile sconfitta al referendum confermativo sulle modifiche apportate alla costituzione, cui facesse seguito la nomina da parte del presidente della Repubblica di un esecutivo istituzionale o tecnico, che per rassicurare l’Europa e i mercati deliberasse nuovi inasprimenti fiscali e ulteriori tagli alla spesa pubblica. Avremmo allora la «tempesta perfetta». La debole ripresa economica degli ultimi mesi verrebbe verosimilmente compromessa, accrescendo sensibilmente il disagio del ceto medio e ponendo anche da noi in termini più urgenti la questione del recupero della nostra sovranità nazionale e della rilegittimazione democratica del potere. Una tendenza intrinseca al nostro sistema politico, quella di generare contrappesi e coalizioni anti-egemoniche quando emerge una leadership, condurrebbe in questo caso, attraverso un percorso a piti tappe, all’avvento di una maggioranza di tipo nuovo, marcatamente sovranista e disponibile a scommettere anche sull’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Nell’intento di recuperare il terreno perduto, potrebbe abbracciare una proposta politica simile, magari declinata in maniera più soft, persino lo stesso Matteo Renzi. Sembra crederci qualche analista straniero, che ha recentemente fatto cenno a questa eventualità, ipotizzando che l’attuale presidente del Consiglio possa affrontare le prossime elezioni politiche con un programma fortemente ostile all’euro. Paiono al momento tutte situazioni remote, estreme e improbabili. Eppure, è successo a Londra che un conservatore moderato e istruito a Eton come David Cameron abbia temerariamente condotto la Gran Bretagna al divorzio dall’Europa. Suo malgrado, certamente. Ma l’azione sociale e quella politica, come ci ha insegnato Ortega y Gasset, sono piene di conseguenze in-intenzionali.5. Le incertezze sono quindi molte. Sulla carta, dal 23 giugno scorso, e senza alcun merito particolare, per il solo effetto dell’automutilazione europea che il Regno Unito si è inferto, l’Italia si è sensibilmente rafforzata, tornando a godere di una rendita geopolitica di posizione del tutto insperata. Possiamo adesso negoziare un modo migliore di stare in Europa e tutelare meglio i nostri interessi nazionali. Ma la crisi che da ormai molti anni colpisce l’economia del Bel Paese, le difficoltà in cui si dibatte la classe media italiana e la permanente ristrutturazione del sistema politico della nostra repubblica rendono difficile qualsiasi previsione. Gli stessi fattori che hanno reso possibile il Brexit sono infatti presenti anche da noi. dove non è escluso che interagiscano con la perversa attitudine del nostro sistema politico a rigettare qualsiasi forma di ricostituzione della verticale del potere. utilizzando a questo scopo ogni tipo di causa. Prima che l’Italia tragga profitto dalla vantaggiosa situazione in cui si è venuta a trovare grazie alla scelta degli elettori britannici, l’aspra lotta politica che si svolge al suo interno potrebbe quindi paradossalmente investire anche la permanenza del nostro paese nell’Unione, con effetti non meno divisivi di quelli osservati a Londra e dintorni. Gli elementi di attrito che comunque continueranno a caratterizzare le nostre relazioni con l’Europa potranno essere in qualsiasi momento utilizzati per infiammare la polemica politica, al servizio delle più svariate ambizioni e della trasformazione degli equilibri interni. 1. F. Squillanti-, «Una chance storica per l’Italia», Atlantide, rubrica online dell’Agenzia Nova, 25/6/2016.