Stefano Cingolani, Panorama 7/7/2016, 7 luglio 2016
TEMPESTA IN UNA TAZZA DI TÈ
Non è l’economia, stupido. Stavolta il popolare detto clintoniano non funziona. La Brexit doveva scatenare il panico come dopo il fallimento della Lehman Brothers e non è successo. Doveva far cadere a picco la sterlina e non è stato così. Adesso scatta l’allarme recessione, ma forse anche questa fosca predizione verrà smentita. Tutti parlano di un rallentamento dell’economia reale in Gran Bretagna e in Europa: si va dallo 0,5 per tre anni in tre anni annunciato da Mario Draghi allo 0,8 di Standard & Poor’s; non poco in un’area economica che non cresce al ritmo degli Stati Uniti, tuttavia non è un crollo.
L’ufficio studi della banca svizzera Ubs, che nel 2011 produsse analisi molto drammatiche sulla rottura dell’unione monetaria, in un rapporto fresco di stampa costruisce due scenari per i principali Paesi dell’area euro. Ebbene, l’Italia (un vaso di coccio a prescindere dalla Brexit) in ogni caso avrebbe un prodotto lordo in ascesa nei prossimi due anni. La crescita s’attesta allo 0,9 e scende a 0,3 nel 2017 se le cose vanno davvero male. Per l’intera eurozona l’Ubs calcola un aumento del Pil dell’1,5 quest’anno e dell’1,3 nel 2017; nella situazione peggiore, avremo più 1,4 e più 0,8. Una frenata, senza dubbio, ma del tutto gestibile. La Banca centrale europea continuerà a stampare moneta e comprerà più titoli sul mercato, mentre si spera che i tedeschi ammorbidiscano la politica fiscale. Marck Carney, governatore della Banca d’Inghilterra, ha anticipato un taglio dei tassi d’interesse in estate e la City ha ripreso fiducia.
Eppure, nella notte tra il 23 e il 24 giugno sembrava davvero che venisse giù l’intero edificio della finanza mondiale. La sterlina prima era balzata a 1,50 nei confronti del dollaro, poi precipitava sempre più. In realtà, erano manovre speculative pure e semplici e non sono durate nemmeno molto, grosso modo fino alle 4 del mattino, ricorda David Bloom, stratega finanziario della HSBC, la Hong Kong and Shangai Bank. I mercati si sono sgonfiati e anche la valuta britannica ha raggiunto valori più realistici, allineati con i fondamentali. Secondo Daniel Gros, direttore del Centre for european policy studies di Bruxelles, si va verso un deprezzamento fisiologico. Ci saranno settori economici che ne trarranno profitto (le industrie esportatrici e le multinazionali che realizzano all’estero la maggior parte dei loro guadagni), mentre altri soffriranno (le finanziarie che attraggono capitali in Gran Bretagna, le banche i cui titoli sono stati infatti penalizzati, costruzioni). Ma anche questo è normale.
Si è trattato, dunque, di una tempesta in una tazza di tè? Il Ftse 100, l’indice della Borsa londinese, ha fatto registrare addirittura la migliore performance settimanale degli ultimi cinque anni e oscilla attorno ai massimo dallo scorso agosto. Esulta Boris Johnson contro tutti i gufi e la propaganda che ha circondato il referendum, anche se non toccherà al brillante giornalista e rutilante ex sindaco di Londra gestire l’uscita dall’Unione europea. In realtà, l’incertezza è nemica della stabilità e della crescita, sottolinea Lorenzo Bini Smaghi, presidente della banca francese Sociétè Générale, e adesso l’incertezza sul futuro di un Paese come la Gran Bretagna è massima. Ne soffrono gli investimenti, i prestiti, la domanda effettiva.
Ma molto dipende dalle capacità di reazione degli inglesi, da come verranno condotte le trattative (le spinte punitive francesi sono state mitigate dalla cautela di Angela Merkel), dal modello adottato.
La convinzione generale è che passeranno molti mesi prima che venga attivato l’articolo 50 del trattato europeo, quello che regola l’uscita volontaria. Mentre il negoziato vero e proprio potrebbe durare due anni, nel frattempo molte cose possono succedere.
L’impatto maggiore, semmai, è politico. Un sistema portato sempre ad esempio perché assicura partecipazione e governabilità, sembra impazzito. I partiti maggiori sono in frantumi e i gruppi dirigenti in ritirata (persino un vincitore come Nigel Farage ha gettato la spugna). La ricaduta sul resto dell’Unione europea è imprevedibile. C’è chi parla addirittura di Frexit se in Francia alle presidenziali dell’anno prossimo prevarrà Marine Le Pen. I Paesi centro-orientali sono pronti a voltare le spalle alla Ue che li ha aiutati a uscire dal comunismo. Persino l’Austria, se vince la destra, potrebbe andarsene.
Tutto ciò avrà conseguenze, è naturale, però i re di denari preferiscono aspettare. I mercati si comportano in modo razionale, con grande soddisfazione dei Chicago boys.