Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 07 Giovedì calendario

ULTIMO ATTACCO ALL’ISIS

Eri un tunisino di vent’anni e credevi nello Stato islamico. Eri un saudita, eri un nigeriano, eri un algerino, eri di una qualsiasi altra nazionalità a scelta tra le decine di Paesi da cui partivano i volontari del gruppo estremista. Eri tra le migliaia di giovani che in due anni sono arrivati in Libia per arruolarsi nel gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi. Credevi avresti vinto facile anche tu, come i confratelli in Iraq e in Siria; credevi che avresti fondato uno Stato islamico sulla costa africana, avevi gettato oppure bruciato il tuo passaporto e abbracciato l’utopia iperviolenta del Califfato.
Invece sei chiuso in trappola dentro Sirte. La città che è stata l’ultimo nascondiglio del colonnello Muammar Gheddafi oggi è diventata l’ultimo bunker dello Stato islamico in Libia. Assieme a te sono restate non più di 500 persone, ma ogni giorno qualcuno muore, il loro numero si assottiglia e non c’è modo di uscire dall’assedio. A nord c’è il mare, pattugliato anche da forze internazionali che bordeggiano al largo. Sugli altri tre lati avanzano i battaglioni di Misurata (le «katiba») fedeli al governo di Tripoli, quasi seimila uomini in sandali e fucili d’assalto che non hanno intenzione di fare prigionieri in città, come dicono con sicurezza a Panorama. Le convenzioni umanitarie che sono usate in altre guerre qui non sono menzionate nemmeno per sbaglio.
A Sirte lo Stato islamico corre verso la sconfitta totale, quasi un’estinzione, per la prima volta nei suoi nove anni di storia. Di solito gli uomini del gruppo sanno sempre dove battere in ritirata quando combattono nelle città della Siria e dell’Iraq, e conservano alle loro spalle altri territori dove trovare rifugio. A Sirte no, in Libia non resta più nulla: lo Stato islamico ha già perso a Derna, a Bengasi e a Sabratha, non ha più una città o anche soltanto un quartiere sotto il suo controllo. Chi ha fatto in tempo è fuggito verso sud, nel deserto, per ricominciare la guerriglia mordie-fuggi. Chi è rimasto a Sirte consuma le sue ultime giornate d’assedio sotto l’occhio dei droni.
Entriamo in città con gli uomini di Misurata a bordo di uno dei Toyota blindati della «katiba» Marsa al Kubra, che è uno dei battaglioni più determinati e organizzati. Gheddafi, che proprio qui fu catturato su una strada a poco più di un chilometro dal fronte, direbbe oggi (come in un suo celebre discorso) che si combatte «zenga zenga dar dar»: vicolo per vicolo e casa per casa. Queste «katiba» oggi in prima linea sono le stesse che uccisero il leader libico nell’ottobre 2011 e molti dei loro uomini parlano un po’ d’italiano perché dopo la rivoluzione furono curati in alcuni ospedali di Roma. «Io a Villa Luisa», «Io all’American hospital», ti dicono: e ti fanno vedere sulla pelle i segni dei proiettili di cinque anni fa.
La battaglia per sradicare lo Stato islamico da Sirte è una replica della battaglia di allora contro gli ultimi fedelissimi del Colonnello. Si sviluppa su tre assi: il primo è la spiaggia sul Mediterraneo, il secondo è la strada principale e il terzo passa attraverso l’Area 700, un quartiere residenziale di case basse, giardini con cancelli di ferro e alberi di carrubo che sta a sud ed è la chiave per espugnare il resto di Sirte. L’area è stata presa sabato 2 luglio, dopo scontri furiosi. «Una volta che controlli Area 700, prendere tutto il resto e spazzare via Daesh è soltanto questione di pochi giorni» dicono con ottimismo gli ufficiali ex ribelli dentro un comando mobile dell’era sovietica (è un grosso camion con radio) e alzano la testa dai fogli con alcuni ingrandimenti stampati da Google Maps che svelano tetto per tetto i quartieri di Sirte.
Per prendere i distretti infestati dai fanatici, la tattica di fanteria delle «katiba» è semplice e si basa sul fatto che quelli sono sì votati o rassegnati alla morte, ma non sono in numero sufficiente per controllare tutte le case vuote e le vie deserte. Così, gli uomini di Misurata scendono dalle jeep appena prima della linea del fronte, superano in fila indiana le montagnole di sabbia che chiudono le strade e separano «noi» da «loro», avanzano in profondità e fanno da esca, nella speranza di attirare il fuoco e d’individuare con esattezza le postazioni dello Stato islamico. Camminano in silenzio, girano in fretta gli angoli, ogni cinque o sei combattenti c’è uno che sferraglia sotto il peso di una mitragliatrice con i nastri di munizioni avvolti attorno al collo. Due settimane fa, una colonna che marciava in un viale troppo dritto è caduta in un’imboscata facile, lo Stato islamico ha ammazzato più di 30 combattenti con colpi precisi alle testa o alla gola. Alcuni erano poco più che adolescenti. Da allora l’ordine è di minimizzare le perdite, a scapito della velocità.
Quando gli uomini a piedi scovano il nemico dentro un edificio, o viceversa, allora la battaglia di Sirte passa alle armi più pesanti. Da una parte e dall’altra si scaricano addosso a vicenda mortai, razzi, colpi di carro armato e tutto un ventaglio di calibri (14,5 mm, 23 mm, 32mm) che, soprattutto verso il tardo pomeriggio quando la calura del mezzogiorno è passata, s’accaniscono e s’incrociano nello spazio di poche strade. Il piano generale è continuare così, casa dopo casa, fino a stringere i fanatici dentro un’area sempre più ristretta, come in una tonnara. A quel punto non è ancora chiaro che cosa succederà: «Forse gli ultimi si faranno saltare tutti assieme» dice un ufficiale a Panorama.
La lotta contro lo Stato islamico sospende le differenze tra i libici di Misurata. Ci sono i battaglioni di salafiti che vanno a combattere con la barba lunga, i baffi rasati e i pantaloni arrotolati alle caviglie (per non toccare il terreno impuro) e rispettano a tutti i costi il digiuno diurno del mese sacro di Ramadan pure se non vi sarebbero tenuti, perché la legge del Corano esenta combattenti e viaggiatori.
Ci sono i giovani che senza farsi troppo notare bevono l’acqua e il succo d’arancia che tirano fuori da borse frigo piene fino all’orlo di ghiaccio (la temperatura tende più ai 40 gradi che ai 30), accendono sigarette prima del tramonto e in almeno un caso si arrotolano uno spinello di dimensioni spettacolari al volante di un blindato. E ci sono i casi di mezzo, come un ufficiale che si lamenta di avere un turno dalle sette di mattina alle sette di sera: «Sono le ore più calde, come faccio a non bere dal mattino fino a quando non cala il buio e tenere la posizione? Mi mancano le energie, non potrei combattere. Per questo avevo chiesto turni diversi, da mezzogiorno a mezzanotte. Così ce l’avrei fatta a rispettare il digiuno».
In entrambi i casi, contro Gheddafi e contro lo Stato islamico, si tratta di battaglie finali. La differenza è che nel 2011 l’impegno internazionale era unanime e fortissimo, e oggi invece no. Sparse nell’Area 700 ci sono ancora le carcasse dei carri armati fatti saltare in aria dai jet della Nato con colpi precisi, i cingoli all’aria e la torretta caduta di lato. Ma l’Occidente del dopo Parigi e del dopo Bruxelles contro lo Stato islamico, a Sirte, non si vede quasi. In cielo passano le sagome di aerei-spia, soprattutto americani, in città ci sono 20 uomini delle forze speciali inglesi a sorvegliare l’offensiva (non si fanno vedere molto in giro, ma la notizia della loro presenza corre sul fronte) e non c’è altro.
I bombardamenti dall’aria questa volta li fanno un paio di aerei di Misurata, e non sono certo quei miracoli di precisione elettronica che vediamo nei video del Pentagono. Qui i piloti arrivano nel tardo pomeriggio, approfittando del sole che cala e acceca i mitraglieri dello Stato islamico. Per sganciare le bombe volano bassi, a differenza degli aerei americani. Dopo avere mollato il carico, indulgono in qualche virata acrobatica: tanto ormai, anche se fossero colpiti dalla contraerea, a quel punto uscire fuori dai pochi chilometri quadrati in mano al nemico e scampare a torture orribili è questione di pochi secondi di volo soltanto.
A terra gli uomini delle «katiba» festeggiano a ogni esplosione, guardano da sopra le trincee di sabbia, si affacciano dalle postazioni sui tetti a meno che i raid aerei non arrivino all’ora dell’iftar, al tramonto, quando è anche il momento di rompere il digiuno. Allora fanno un gesto svelto di vittoria, ma quasi non alzano la testa dalla cena.