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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

UN CONFINE SOTTILE – Il rischio fa paura perché ti costringe a preparare una difesa. Perché ti tiene in trincea senza un nemico visibile da osservare mentre si avvicina Silvia Mari, Il rischio «Knowledge is power», la conoscenza è potere

UN CONFINE SOTTILE – Il rischio fa paura perché ti costringe a preparare una difesa. Perché ti tiene in trincea senza un nemico visibile da osservare mentre si avvicina Silvia Mari, Il rischio «Knowledge is power», la conoscenza è potere. Così Angelina Jolie conclude la seconda delle due lettere inviate al «New York Times» per annunciare la sua scelta di rimuovere preventivamente seno e ovaie dopo aver scoperto di essere portatrice di una mutazione che innalza fortemente il rischio di sviluppare tumori in quegli organi. L’obiettivo è incoraggiare le donne a informarsi per fare scelte consapevoli su temi che riguardano la propria salute. E per farlo racconta la sua storia, quella di una donna che ha perso nonna, madre e zia per tumori causati dalla mutazione Brca1. Sa bene di essere a rischio. Un rischio oggettivo che, calcolato su di lei, sfiora il 90 per cento per il cancro al seno e il 50 per cento per quello alle ovaie. Non c’è la certezza che si ammalerà, ma è molto probabile che questo accada. E lei ha sei figli che vuole vedere crescere. Le sue scelte, tuttavia, sono state giudicate, troppo superficialmente, come «estreme» e «brutali», «frutto del capriccio di una star» da molti media ma anche medici italiani, che non hanno approfondito le motivazioni mediche oggettive e il dramma che sta dietro a certe decisioni. Che cosa vuol dire vivere l’alto rischio di sviluppare un tumore al seno e alle ovaie per una giovane donna che ha già subito lutti in famiglia? Ce lo racconta Silvia Mari, giornalista di DIRE e «Jolie italiana» a tutti gli effetti. Nel 2007, in un’Italia ancora poco preparata sulle mutazioni Brca e sulla chirurgia preventiva, Silvia si sottopone a mastectomia profilattica dopo avere scoperto di essere Brca mutata. E come Jolie racconta la strada che l’ha portata a questa scelta: il suo libro, Il rischio, viene pubblicato nel 2010 dall’associazione Fontes (ora disponibile on line). Da poco invece è uscito un suo secondo libro Previvors. Imperfetti (Stamen Editore), che affronta il tema della mutazione con un approccio filosofico. Silvia infatti, laureata in filosofia, cerca di dare un contributo alla bioetica sulle sindromi genetiche, un tema assente nei dibattiti che coinvolgono cittadini e istituzioni ma che farebbe la differenza quando si chiedono politiche sanitarie adeguate a questa condizione. Silvia, ci racconta in breve il suo percorso? «Tutte le donne della mia famiglia materna sono state colpite da cancro al seno e all’ovaio con prognosi negative. Per la stessa ragione ho perduto mia madre quando ero molto piccola e sono cresciuta con la sensazione che fosse una maledizione, la traccia visibile di una colpa. Già da adolescente però ho iniziato a cercare informazioni sul web trovando studi e articoli che parlavano di possibili mutazioni genetiche di cui nessuno, fino a quel momento, mi aveva parlato. Sentii vari specialisti e cominciai, ancora prima di eseguire il test del DNA, una sorveglianza strettissima con la convinzione che, comunque, la mia condizione non fosse quella di una generica familiarità. L’anamnesi parlava chiaro. Quando poi ho potuto fare finalmente il test, la positività alla mutazione Brca2 mi ha permesso di essere arruolata in un programma di prevenzione speciale, che ho seguito fino a quando ho optato per la chirurgia preventiva ritenendo che fosse il modo migliore per salvaguardare la mia salute. Ho così affrontato l’intervento a 28 anni, dopo un percorso di preparazione multidisciplinare che ha incluso l’assistenza psicologica». Nel suo libro Il rischio si è definita “né sana, né malata”, riferendosi soprattutto al periodo in cui faceva i controlli ravvicinati. Che cosa si prova quando si vive il rischio genetico di sviluppare un cancro al seno? «Quando ho capito che c’era un rischio genetico alla base dell’insorgere della malattia nei miei familiari, e che anche io ne ero portatrice, ho vissuto uno stato d’animo altalenante, incoerente, pieno di contraddizioni malgrado la costante ricerca di una ragione. Un giorno ti senti sana e uguale a tutti gli altri e il giorno dopo ti senti minacciata. Le analisi e le statistiche mediche non danno la garanzia che ti ammalerai, ma chiariscono che è molto improbabile che non ti ammalerai. Di conseguenza non riesci ad avere una progettualità privata lucida perché hai l’impressione di non avere tempo. Essere in questa condizione genetica significa poi provenire da famiglie in cui, al di là dei lutti, la malattia è stata fortemente presente e questo conferisce un carico emotivo diverso da quello di una persona “normale”. Ma non è solo una condizione mentale, perché i controlli periodici a cui si sottopone una persona mutata sono diversi da quelli assegnati in assenza di questo alto rischio. Si vive una vita fortemente medicalizzata, già da molto giovani: ogni tre-quattro mesi fai un’ecografia approfondita e una risonanza magnetica, e non sai se puoi assumere anticoncezionali ormonali perché i medici stessi sono dubbiosi a consigliarteli nella tua situazione di alto rischio. Ci sono quindi elementi oggettivi che ti portano a vivere una situazione labile di confine tra la salute e la malattia. Ti senti una “paziente non-paziente”». Come cambia la vita dopo l’operazione? «La condizione che ho appena raccontato si è ribaltata dopo l’operazione, e non per una questione psicologica come dicono tanti facendoti passare per isterica. La mia situazione è oggettivamente cambiata. Oggi faccio un controllo al seno ogni uno-due anni anziché ogni tre-quattro mesi. Devo far controllare periodicamente le protesi, ma questo comporta uno stato d’animo ben diverso dall’ansia che precede gli esami diagnostici. Quel rischio altissimo di ammalarmi è diventato una probabilità altissima di non ammalarmi, e addirittura sono un po’ più protetta di una donna non mutata. E non si tratta di una condizione psicologico-emotiva ma di un dato clinico, un fatto medico-scientifico. Ovviamente ci sono strascichi dolorosi. L’aspetto che mi ha donato la chirurgia mi rappresenta, ricorda l’immagine che avevo, mi piace e lo porto con disinvoltura. Ma la chirurgia non mi ha restituito il mio seno di prima, un seno bello, vistoso e allora ancora sano. Rimane un po’ di malinconia per aver dovuto fare questa scelta in solitudine a 28 anni. A parte questi strascichi, però, sento di aver vinto: rispetto a mia madre e alle mie zie ho potuto fare qualcosa, e non sono stata ad aspettare inoperosa una malattia che sembrava un destino inevitabile». Qual è stata la sua reazione quando ha saputo della scelta di Angelina Jolie? «Sono rimasta stupita e sconvolta, come se in fondo fossi convinta che certi problemi di vita non potessero colpire le celebrità e le loro vite fortunate. Dopo lo stupore ho provato gioia per lo tsunami mediatico che si consumava in quelle ore: pur con tutte le insidie e i rischi di diffondere un’informazione scorretta, accendere la luce su un tema che raramente viene trattato degnamente è un merito e un’occasione». Come giudica il modo in cui la Jolie ha trattato l’argomento? C’è qualcosa che lei avrebbe detto in modo diverso? «Ho letto il testo originale di entrambe le sue lettere. Lei è stata brava, molto precisa ed emotivamente pacata; non ha sbandierato la sua scelta come la soluzione. La traduzione sui media italiani non è però stata fatta in modo serio. È trapelato un messaggio molto più emotivo e meno misurato, già con un giudizio sulla scelta e un conseguente uso dei termini sproporzionato: “mutilazione”, “paura del cancro”. Per me sono stati giorni intensi in cui molti colleghi mi hanno intervistata, ed è stato molto faticoso dover rettificare il messaggio. Spesso mi venivano fatte le domande sbagliate, come “Perché sei stata costretta a toglierti il seno da sana?”, oppure si attribuiva la mia decisione alla condizione emotiva della perdita di mia madre. Nessuno voleva capire la condizione medico-scientifica di rischio oggettivo. Trovo che questo approccio sia una grande responsabilità dei colleghi della stampa, allenati più al commento che all’analisi. Jolie mi è piaciuta altrettanto per come ha comunicato la scelta di rimozione dell’ovaio, perché ha usato meno enfasi, consapevole di essere tra le poche, nel mondo occidentale, ad avere così tanti figli sotto i quarant’anni. E qui di nuovo non mi è piaciuta la stampa italiana, che si è dimostrata poco equilibrata, ma nella direzione opposta questa volta: due anni fa si schierava contro la chirurgia, giudicando migliore la scelta di fare prevenzione secondaria, ora ha fatto passare l’opzione chirurgica come la migliore. E spesso ho visto anche nei medici questa mancanza di equilibrio». Angelina Jolie ha fatto questo percorso in un paese, gli Stati Uniti, dove la chirurgia profilattica è già una prassi, e non è certamente stata la prima a sceglierla. Lei invece è stata una pioniera in Italia, la prima a operarsi al seno da sana. Quanto è stato difficile? «Il mio percorso è stato in effetti sui generis, perché non sono stata guidata dai medici alla comprensione iniziale di ciò che mi accadeva. Dico sempre che a salvarmi è stata la filosofia, e in effetti l’unica guida è stata una mia analisi induttiva sulla storia della mia famiglia: un approccio empirico e tutto soggettivo che però mi ha messo sulla giusta strada. Questo ovviamente ha aumentato l’ansia e la paura, perché ero adolescente e facevo tutto da sola con il grande dubbio di essere accecata dall’angoscia di avere perso mia mamma da piccola, e visto ammalarsi tutte le zie. Fossi stata accompagnata da un team di medici forse sarei stata più serena, avrei vissuto meno pesi; non tanto nel confronto con gli altri, ma nella mia autocomprensione specifica del problema. La scelta rimane sempre e comunque del paziente: il peso della libertà e quindi della scelta, come è giusto, sarebbe rimasto comunque e sempre solo mio». Lei racconta che la sua scelta è stata anche un modo per liberarsi da un’impronta cattolica e fatalista fortemente radicata nella sua famiglia e, in genere, nella cultura italiana che anche in questo si distingue da quella statunitense. Ne vuole parlare? «Una moralità cristiana, non cattolica, me la porto dentro e sono imbevuta di questa cultura. Non c’è una posizione della chiesa cattolica contro questa opzione, ma è senza dubbio una certa cultura fatalista che ne deriva ad aver rallentato la conoscenza della chirurgia profilattica nel nostro paese. Una sorta di atteggiamento prudenziale, se non proprio di diffidenza per chi assume decisioni sul proprio corpo in autonomia, come se volesse avere il controllo su tutto. Al contrario, io non credo di avere in mano il mio destino, ma tutto ciò che posso scegliere lo voglio scegliere, e pretendo di sceglierlo. A mio avviso il retaggio culturale che lascia un certo cattolicesimo è assolutamente deleterio per la ricerca scientifica e, più in generale, per l’approccio delle persone ai concetti di vita, salute, malattia e cura. Credo che tutto ciò che la scienza può offrirci per combattere la malattia e per vivere più a lungo è dovere dell’uomo farlo proprio. Proprio perché amo la vita, e la rispetto, non trovo ammissibile rifiutare quello che la scienza offre per vivere meglio, purché questo non danneggi alcuno. Ma se io vivo secondo le mie idee, e faccio testimonianza, do il mio contributo per un modello di politica e di società in cui tutti siano compresi e aiutati, spendo la mia coscienza per incoraggiare lo sviluppo della ricerca, combatto per vivere meglio e più a lungo. Avrò combattuto affinché i miei figli non siano orfani, e sarò felice perché avrò fatto il mio dovere». E a proposito di figli lei sta vivendo ora la sua prima gravidanza. Che cosa ha voluto dire scegliere di mettere al mondo un figlio sapendo che c’è il 50 per cento di rischio di trasmettere la mutazione? «È stato il secondo problema più grande della mia vita, anche perché, ancora una volta, in Italia l’informazione al riguardo manca. Mi sono chiesta se procedere con una selezione dell’embrione in modo da escludere il rischio di passare questa mutazione a mio figlio. Sicuramente sarei dovuta andare all’estero, perché in Italia la Legge 40 non prevede la selezione del corredo genetico in caso di mutazione Brca, che non viene considerata una patologia vera e propria. Andare all’estero sarebbe stato dispendioso, ma quello che mi ha realmente fermata sono stati i problemi legati alla mia salute. La stimolazione ormonale e il prelievo degli ovociti, in una persona come me, aumentano il rischio di sviluppare neoplasie alle ovaie. Dopo aver combattuto tanto perché ero stata un’orfana non volevo reiterare questa ipotesi di condizione sui miei figli. Ho quindi deciso di avere questo figlio per vie naturali anche se la questione non è ancora totalmente risolta dentro di me. La preoccupazione per il rischio di trasmettere la mutazione c’è, anche perché aspetto una bambina. Nel momento in cui ho deciso di concepire ne ho parlato con i medici che mi seguono da anni. La fiducia, e la battaglia da fare, è che tra vent’anni, quando anche lei dovrà porsi il problema, ci siano strumenti diversi e migliori per affrontare questa condizione». Sapere di aspettare una bambina comporta un carico emotivo maggiore? «Solo inizialmente questa consapevolezza mi ha procurato più ansia, perché nell’eventualità in cui fosse portatrice della mutazione sarebbe meno protetta, nei numeri del rischio, rispetto al maschio. Subito dopo però ha prevalso la forza di conoscere esattamente questa parte oscura della vita, di potergliela comunicare nel giusto modo, qualora fosse portatrice, e di poterla salvare. Su questo non ho un solo dubbio, e provo un senso di riscatto rispetto alla vita perché ci sarei io a guidarla, a indicarle la strada e a metterla al sicuro. Non sarebbe sola nelle questioni pratiche, né nella sfera emotiva. Non dovrebbe cercare la strada in autonomia e tra mille fatiche, a rischio di perdersi. Non verrebbe da quella catena di malattie e lutti a ripetizione da cui vengo io». Ha già un nome la bimba? «Sul nome femminile io e mio marito non abbiamo dubbi. Sceglieremo il nome della “Vittoria”. Mi piace in modo particolare il suo significato e mi ricorda il “Lago Vittoria”: luogo meraviglioso che ho visitato in Uganda, il paese di mio marito. E avrà anche il nome di mia madre. Una scelta che non è solo un tributo alla memoria, ma una convinzione profonda che chi ci ha lasciati sia con noi. Si tratta di uno degli aspetti spirituali più intensi che ho conosciuto e amato fin dal primo momento della cultura di mio marito». È da poco uscito il suo secondo libro che affronta il tema della mutazione con un approccio diverso rispetto a Il rischio. Ce ne vuole parlare, magari anche spiegando il perché del titolo Previvors? «Anche grazie ad Angelina Jolie il tema della mutazione è stato finalmente sdoganato. Ora se ne parla, ma la chiave è sempre esperienziale, autobiografica, psicologica come è stato anche il mio primo libro. A mio avviso manca invece un fronte di ragionamento su che cosa significa essere mutati a livello delle relazioni intersoggettive e quindi in tema di diritto pubblico. Previvors è un termine coniato dall’associazione statunitense Facing Our Risk of Cancer Empowered e deriva dalla contrazione di predisposition, predisposizione, e survivors, sopravvissuti, nel caso specifico, al cancro. Indica coloro che vivono sapendo di avere la potenzialità della malattia e che quindi sanno di essere «imperfetti». Ma che significa per la società sapere di avere soggetti «imperfetti»? Comporta discriminazioni, per esempio sul lavoro, e quindi è meglio non sapere? Rischiamo di cadere nella trappola dell’eugenetica? O iniziamo a prendere consapevolezza che il corredo genetico perfetto non esiste perché in realtà siamo tutti mutati e quindi predisposti a rischi di salute di vario tipo? Solo che molti di noi non lo sapranno mai. E allora questa umanità che si scopre più imperfetta può cogliere l’occasione per imparare a essere più giusta con tutti, in tema di sanità ma anche di tutela sul lavoro, per esempio». A chi è rivolto il libro? «È rivolto in particolare a chi, in vari contesti e ruoli – medici, giuristi, professori universitari, giornalisti – si occupa di questioni bioetiche anche in ambiti che non siano strettamente legati alle mutazioni. Anche chi è chiamato a decidere di fecondazione, eutanasia, maternità surrogata e così via, deve porsi, secondo me, un certo tipo di domande finora rimaste coperte da un veto culturale». Questa seconda pubblicazione completa la sua battaglia sul piano della comunicazione dell’alto rischio cancro o ha altri progetti? «La battaglia non è affatto conclusa. Considero questo impegno come il testamento spirituale di mia madre, e come tale mi accompagnerà tutta la vita. Non ho individuato un altro progetto chiaro all’orizzonte, ma prosegue il mio impegno sui vari fronti, in questa chiave “politica e di diritto”. E lo faccio per conto mio ma anche insieme alle associazioni. Per esempio ho scoperto che in Lazio non esiste una norma che preveda il sostegno per l’acquisto del latte a donne che hanno subito una mastectomia bilaterale. Mentre con l’associazione IncontraDonna onlus mi batto per ottenere Breast Unit (centri specializzati nel trattare il cancro al seno) e codici di esenzione per i mutati ancora non presenti nella Regione Lazio. E poi c’è ancora tantissimo lavoro da fare per contrastare i facili innamoramenti dell’epigenetica che ora va molto di moda ed è spesso utilizzata ad arte per affossare ricerca scientifica e impegno istituzionale sul fronte della ricerca genetica. Se è vero che l’ambiente esterno e le varie fonti di inquinamento sono causa di molte patologie tumorali, è altrettanto vero che le persone che hanno in eredità dei rischi genetici accertati hanno a prescindere un rischio di partenza più alto. Parlare solo di prevenzione primaria, cibo sano (mi domando poi da prendere dove, viste le condizioni di numerose aree contaminate del nostro paese), sport e diagnosi precoce mi sembra corrisponda alla volontà di offuscare un po’ la parte genetica della questione che va trattata a prescindere dall’impegno, certamente importante, anche sulle cause epigenetiche di molte patologie. Ci piaccia o no, siamo tutti anche il nostro DNA».