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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

LA NUOVA COMPAGNIA DEGLI INDIE OCCIDENTALI

È cominciato il pellegrinaggio verso Calcutta. Non si tratta di paesaggi indiani o di treni che farebbero impazzire Wes Anderson, ma di una marea di persone, undicimila previste solo sull’evento di Facebook, che, invece di seguire la diretta del Premio Strega e scoprire chi sarà il vincitore, domani sera si ritroveranno a Villa Ada per sentire il concerto di Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. “Ti prego, dimmi, che cosa mi manchi a fare, tanto mi mancheresti lo stesso”, “suona una fisarmonica, fiamme nel campo rom, tua madre lo diceva, non andare su youporn”, “preferirei del verde tutto intorno, vestiti da Sandra che io faccio il tuo Raimondo”, cantano loro, ripassano e ripetono i testi del suo album Mainstream, come fossero studenti in preda all’ansia prima dell’esame di maturità.
Sono gli stessi che vanno ai concerti de I Cani, che leggono i libri de Lo Stato sociale e di Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), che aspettano l’uscita del nuovo album dei Thegiornalisti, che conoscono a memoria le canzoni de L’Orso, di Colapesce e di Motta.
Sono i seguaci di quella che potremmo chiamare “la compagnia degli indie occidentali”, o meglio italiani, i De Gregori, i Battisti, i Battiato di oggi, che hanno inventato una musica senza età, intimista, sentimentale, innocente, pura, universale, capace di raccontare la poesia del quotidiano, pieno di immagini, di amori difficili, di nostalgie, di cose già viste, e “ricolmo di sobbalzi liceali”.
All’interno di questa compagnia ideale esistono diverse “scene”, una su tutte quella romana, che oltre a Calcutta (nato e cresciuto a Latina) comprende anche I Cani e i Thegiornalisti.
Niccolò Contessa, alias I Cani, ha cominciato caricando le canzoni su YouTube e presentandosi ai concerti con il volto coperto da una busta del pane. Ne Il sorprendente album d’esordio de I Cani e in Glamour, c’erano dinamiche di coppia, compromessi, sogni americani, ragazzi che leggevano Foster Wallace al parco, il romanticismo dei “pariolini di diciott’anni”, “hipsterie”, velleità, inadeguatezze, lexotan mancati, felicità “non fotogeniche”: “Da quando il tour è un lavoro e la gente che amo sta male, io da solo non ci riesco più, e non è avere vent’anni, non è avere gli esami, fidati è qualcosa in più”.
Un esistenzialismo di Roma Nord, insomma. In Aurora, il nuovo album, Contessa si è “deromanizzato”, dedicandosi alle due grandi malattie dei tempi moderni: l’ansia e l’individualismo. Tommaso Paradiso, leader dei Thegiornalisti, condivide le stesse paure, le stesse angosce, lo stesso gusto di attendere la vita “come i padri sulle scale che attendono le figlie, con le cinte in mano, perché hanno fatto tardi” (dall’album Fuoricampo).
Le estati finiscono sempre, ci si sente persi senza google maps, la serie A, le sigarette, i vestiti giusti, e se non è possibile socializzare, forse, non rimane che ballare.
Spostandoci su un’isola, vediamo che a rovinare le spiagge della Sicilia, e dell’Italia in generale, secondo Colapesce (nato a Solarino, in provincia di Siracusa), non ci sono soltanto gli ecomostri. Più si guarda intorno, più si rende conto di essere circondato da “egomostri”, più guarda dentro di sé, più si accorge di essere diventato uno di loro. Ci siamo chiusi nel nostro piccolo mondo fatto di Brezsny, telefoni modalità aereo, cibi da fotografare, ipocondrie, slogan, rimpianti, ignorando, anzi temendo, tutto quello che c’è fuori (Egomostro).
Salendo su, verso i cieli del nord, fermandoci in Toscana, scopriamo Francesco Motta che, come Calcutta, è al suo primo album da solista “mainstream”.
La fine dei vent’anni, e l’inizio di cosa? Ancora non si sa, è “un po’ come essere in ritardo”, anche se qualche piccola certezza c’è, come la fortuna di saper capire gli altri, di non farsi accecare dalle luci delle grandi città, di non dimenticare mai come siamo arrivati fin qui: “Mio padre era un comunista e adesso colleziona cose strane, dice che le amicizie e la rivolta sono vere solo per chi ha paura, e rimane”.
In Emilia troviamo Le luci della centrale elettrica, quasi i padri spirituali di questa compagnia, e Lo Stato sociale. In entrambi i gruppi convivono la poesia e l’impegno, Antonio Delfini e Karl Marx, tra la serietà dei primi (“a forza di ferirci siamo diventati consanguinei”) e la leggerezza dei secondi (“ti donerei il mio cuore, ma non si butta mai via niente del maiale”). L’amore non più “ai tempi del colera”, quindi, ma “ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici”.
E infine Milano, addolcita dalle canzoni de L’Orso. Come I Cani vorrebbero “vivere in un film di Wes Anderson”, così loro sognano “la vita di James Van Der Beek” (il celebre Dawson), fatta di serate passate a guardare film, di timidezze, di rifiuti, di amori a distanza, senza paura di cadere nella “trappola” di un’adolescenza che sembra non finire mai.
GIORGIO BIFERALI, il Fatto Quotidiano 7/7/2016