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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

IL MINISTRO DELL’ESTERNO

Da antichi e affezionati ammiratori di Angelino Jolie, non riusciamo a nascondere la costernazione per quanto emerge dall’inchiesta di Roma su quello che, pare incredibile, ma dal 2013 è ininterrottamente il nostro ministro dell’Interno, dopo aver inopinatamente ricoperto il ruolo di Guardasigilli (a riprova del fatto che la stabilità non è sempre un valore). Come può – ci domandiamo in queste notti insonni – un simile campione della meritocrazia, una cotanta quintessenza della competenza, una tale consustanziazione del talento, finire nel tritacarne giudiziario per cosucce da niente? Tipo un fratello fatto assumere da Lino Pizza come funzionario alle Poste per la modica cifra di 160 mila euro l’anno. O un padre che manda 80 curriculum per altrettanti amici da sistemare al call center progettato dalla Cricca. O come il fratello di Pizza in servizio al Viminale (senza dimenticare la moglie di Alfano, già beccata in passato per consulenze alla Consap, controllata dal Tesoro). Al punto che la segretaria di Pizza, intercettata, lo diffama con un’amica: “Io ti ho spiegato cosa ci ha fatto a noi Angelino… cioè noi gli abbiamo sistemato la famiglia”.
No, questo è troppo. Non può che avere ragione il ministro, giustamente indignato per questo “riuso degli scarti di un’inchiesta giudiziaria per fini politici”. Siccome “le intercettazioni non riguardano me, bensì terze persone che non sento da anni”, è chiaro che è una montatura. Del resto la sua biografia parla per lui: “L’inchiesta racconta comportamenti che sono distanti dalla mia visione delle cose, del mio mondo e del mio essere cittadino italiano”. Stiamo parlando di una delle teste più fini (nel senso di sottili, tipo carta velina) della politica italiana. Uno che 10 anni fa si dichiarò “unilateralmente innamorato di Silvio Berlusconi”. Uno che firmò, e forse persino lesse di sfuggita, leggi epocali come il lodo Alfano (purtroppo bocciato dalla Consulta), il bavaglio Alfano (purtroppo stoppato dall’alleato Fini), il processo lungo e la prescrizione breve (purtroppo schifati dalla sua stessa maggioranza). Uno che, per risolvere l’emergenza carceri, lanciò l’idea di sistemare i detenuti eccedenti in “penitenziari galleggianti” in mare (purtroppo stroncata dall’intervento della neuro). Uno che si fece raccomandare da Massimo Ciancimino, ovviamente prima che collaborasse con i pm (dopo finse di non conoscerlo), per un trapianto di capelli (purtroppo abortito perché i bulbi piliferi preferirono il suicidio di massa, pur di non risiedere sul suo capino implume).
Uno che, divenuto il coordinatore di FI (prima che B. rinsavisse), lanciò il “partito degli onesti” e del “merito” e subito nominò nell’“Organismo indipendente di valutazione della performance dei magistrati”, con un contratto da 48.600 euro annui, un esperto d’eccezione: Calogero “Lello” Casesa, agrigentino come lui, ex compagno di giochi, impiegato in Provincia, ex consigliere comunale di FI, mai laureato ma in compenso presidente della sagra “Mandorlo in fiore” e suonatore di friscalettu (lo zufolo dei balli folcloristici) nel gruppo “Val d’Akragas”. Uno che, promosso ministro dell’Interno da Napolitano e Letta, portò al Viminale una carrettata di ex sindaci ed ex consiglieri delle sue parti, più i loro figli, cognati e nipoti. Poi, purtroppo, finì nei guai per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlioletta, organizzato da agenti italiani e kazaki direttamente dal suo ufficio. Ma lui si difese dicendo che non si era accorto di niente (stava zufolando con Lello). Cioè preferì passare per fesso: e ai colleghi in Parlamento, per credergli sulla parola, bastò guardarlo in faccia. Una faccia da laterizio che nasconde bene gli eventuali pensieri e ricorda vagamente quella di un conterraneo e predecessore al Viminale: il democristiano Franco Restivo che – scrisse Fortebraccio – “con quella faccia familiare da vagone ristorante, si dedica incautamente all’imitazione di Bismark”. Per non parlare della fronte inutilmente spaziosa. Più che dell’Interno, un ministro dell’Esterno.
Quando B. lasciò il governo Letta, lui s’imbullonò alla poltrona e, per puro spirito di servizio e attaccamento al dovere, fondò un partito con gli altri cadreghisti berlusconiani: Ncd, acronimo di Nuovo Centro Detenuti, avendo un terzo dei propri parlamentari indagati o imputati, comunque molto più numerosi degli elettori. Con un simile pedigree, chi potrebbe mai sospettare che quelle brutte voci intercettate sui suoi cari siano vere? Diciamolo: l’unica sua colpa è avere una famiglia numerosa e un po’ esuberante, ma piena di gente di prim’ordine: o vogliamo penalizzare un fratello, una cognata, un padre e una moglie solo per il cognome che portano? Qualcuno ce l’ha forse con loro perché sono meridionali? Razzisti, ecco. Bene fa Renzi a non dire una parola sulla faccenda e men che meno a chiedere chiarimenti al suo ministro o, peggio che mai, dimissioni. Ci mancherebbe che lo statista di Agrigento ci lasciasse per così poco.
L’effetto di un gesto tanto sconsiderato sarebbe identico a quello che avrebbe prodotto sull’Italia l’uscita della Grecia dall’Ue: farci scivolare dal penultimo all’ultimo posto. Senza Alfano, la speciale classifica dei QI dei ministri li farebbe precipitare tutti di un gradino, a rotta di collo verso l’abisso. Meglio tenerlo lì. Anche nel ricordo di Fortebraccio che, se fosse vivo, ci si affezionerebbe subito. “Se qualcuno – scrisse un giorno – non avesse avuto l’ardire di offrirglielo fritto al ristorante, non avrebbe mai saputo dell’esistenza del cervello”. Ma parlava di Forlani, non avendo fatto in tempo a conoscere Alfano.
di Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 7/7/2016