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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

I DANNI DELLA PSICOTERAPIA

«Una domanda vorrei fargliela io: come mai le interessa questo tema, di cui pochi mi hanno chiesto finora?». A chiederlo è Marco Casonato, che si occupa fra l’altro di effetti indesiderati delle psicoterapie all’Università di Milano-Bicocca. Il tema, in sé, è persino ovvio: come ogni intervento medico, anche le psicoterapie possono avere effetti nocivi e far stare peggio il paziente. Ma, a differenza che per i farmaci, la cosa è poco considerata e gli studi sono scarsi e sporadici. «È un tema che periodicamente si riaffaccia e poi torna nel dimenticatoio», conferma Antonio Semerari, fondatore del III Centro di psicoterapia cognitiva e didatta alla Scuola di psicoterapia cognitiva di Roma.
A confermare la portata del problema arriva ora un’indagine sul «British Journal of Psychiatry» diretta da Mike Crawford del Royal College of Psychiatrists di Londra. Su quasi 15.000 britannici interpellati durante o appena dopo le cure per disturbi d’ansia o depressivi presso il Servizio sanitario nazionale, 760 dichiarano «effetti negativi duraturi».
Il tipo di terapia adottata – cognitivo comportamentale, psicodinamica, counselling e così via – fa poca differenza, ma è più a rischio chi non sa dire che tipo di terapia stia seguendo, o chi dichiara di aver ricevuto poche spiegazioni sui principi e sulle modalità dell’intervento prima di iniziarlo. Sono leggermente più esposti i giovani tra i 18 e i 24 anni, e molto di più le minoranze etniche, in cui il rischio arriva a triplicare, e gli omosessuali, in cui può anche raddoppiare.
«In vari paesi occidentali – commenta Crawford – le psicoterapie si sono mostrate altrettanto efficaci nelle etnie minoritarie quanto nella popolazione generale, ma i danni non erano mai stati indagati. Sappiamo che la competenza generale di un terapeuta non è sempre sinonimo di agio nel trattare con culture diverse o nel discutere i temi della sessualità. Ma è un tema da approfondire». I suoi dati non chiariscono quali deterioramenti siano ascrivibili alla terapia e quali sarebbero avvenuti lo stesso, ma confermano le stime che in varie casistiche segnalano un aggravamento dei sintomi nel 5-10 per cento dei pazienti.

Scarsa consapevolezza
Numeri importanti, dunque, che fanno pensare che i danni non siano un problema sporadico. «I terapeuti li notano nella pratica di ogni giorno. La letteratura li segnala da almeno settant’anni. Le metanalisi ne riconoscono l’importanza da oltre trenta. Sarebbe tempo di occuparsene a fondo», commenta in un editoriale Jan Scott, docente di medicina psicologica all’Università di Newcastle.
Riconoscere i danni delle psicoterapie, per paradosso, è stato essenziale persino per affermarne la validità. Fra gli anni cinquanta e sessanta molti dubitavano che le terapie dessero qualche beneficio oltre il placebo, anche perché alcuni studi parevano indicare che i pazienti, nell’insieme, non miglioravano. «Allen Bergin, allora alla Columbia University, riprendendo questi studi si accorse che le condizioni invariate prima e dopo la cura celavano in realtà un doppio effetto: alcuni pazienti miglioravano, anche molto, altri peggioravano», spiega Semerari. «D’altronde sarebbe strano il contrario. Tutte le terapie che funzionano hanno un rischio iatrogeno, dai farmaci alla chirurgia, e non c’è motivo per cui le psicoterapie dovrebbero fare eccezione. Se una cosa non fa potenzialmente anche male, vuol dire che non fa niente».
Nonostante tutto ciò, la trascuratezza rimane. «Ricevo molte segnalazioni individuali di deterioramenti, ma nell’insieme il problema viene messo sotto il tappeto. Si fa finta di niente», lamentava Bergin nel 1971. «In questi decenni poco è cambiato. Il tenore del dibattito non è molto diverso», dichiarava di recente David Barlow dell’Università di Boston. Mancando un’autorità di controllo esterna com’è la FDA per i farmaci – sostiene – il monitoraggio e gli interventi sono sostanzialmente devoluti alla professione della psicologia, che però è sempre stata riluttante a occuparsene.
Si spiega così l’impressionante divario fra le testimonianze dei pazienti, che sul Web riferiscono in tanti le loro esperienze sfavorevoli, e lo spazio irrisorio dedicato al tema nei manuali professionali, nella letteratura scientifica, e persino nei rapporti sugli esiti delle sperimentazioni cliniche: in una rassegna di pochi anni fa solo 28 rapporti su 130 citavano il concetto, e alcuni solo per negarne l’occorrenza, anche se col tempo la situazione sta un po’ migliorando. Si spiega inoltre la scarsa consapevolezza fra i terapeuti: in un’indagine statunitense del 2006, oltre un quarto dei 180 psicoterapeuti interrogati appariva ignaro della possibilità di effetti nocivi.

Difficoltà della ricerca
A loro discolpa va detto che la questione è complicata. Non solo occorre grande rigore per chiarire che cosa sia davvero un danno; c’è chi migliora ma magari sarebbe migliorato ancora di più senza terapia, o chi peggiora ma senza aiuti si sarebbe aggravato. Manca anche chiarezza su come definire e misurare gli effetti nocivi, distinguendo fra la semplice mancanza di benefici, gli effetti collaterali transitori concomitanti o appena successivi alla terapia, i veri danni iatrogeni di lunga durata e le percezioni personali di peggioramento pur in assenza di riscontri obiettivi.
«C’è una marea di termini usati in modo confuso. Per fare una ricerca sistematica degli studi abbiamo dovuto usare una quindicina di parole chiave, da “effetti negativi” a “eventi avversi”, “esacerbazione dei sintomi”, “deterioramento clinico”, “danno” e via dicendo», lamentano Crawford e altri psicologi in un editoriale sul «British Journal of Psychiatry».
Un’altra complicazione rispetto ai farmaci è il ruolo del terapeuta e della sua relazione con il paziente, che rende impossibile standardizzare gli interventi: quello somministrato non è mai esattamente quello studiato in un trial. Metodi errati, terapeuti anche abili ma poco avvezzi a un dato metodo o a certi pazienti (per esempio incapaci di lavorare sul lutto per vissuti personali), rotture non risolte dell’alleanza terapeutica, inadeguatezze del trattamento offerto rispetto all’ideale convalidato nel trial (magari con meno sessioni), sono fattori di rischio difficili da controllare.

Un insieme di cause
I danni possono derivare da varie ragioni. «Ci sono i veri e propri errori, ma anche tecniche valide ma inadatte a certi pazienti», dice Casonato. «Un classico approccio che scava alla ricerca di eventi passati può essere disturbante in pazienti con certi disturbi di personalità: chi è già fin troppo portato a interpretare, o a spiegare razionalmente, può tendere quanto meno a stabilizzare queste propensioni, e potenzialmente ad aggravare i suoi disturbi. Altro esempio: spesso alcune tecniche ipnotiche sono attraenti per persone disturbate (borderline e psicotici), ma rischiano di produrre esperienze para-allucinatorie. Che magari in una persona rigida, razionalizzante, possono fare persino bene, ma in costoro producono esperienze psicotiche che poi potrebbero stabilizzarsi. Fanno un po’ l’effetto della marijuana, talora innocua e talaltra molto dannosa a seconda di chi la fuma e delle sue predisposizioni. Il guaio è che molte scuole tendono a proporsi come “la terapia” che cura tutto, mentre spesso, come per i farmaci, dovrebbero dire “otteniamo buoni risultati per questi problemi; per disturbi diversi, scegliete altri approcci”».
Aggiunge Semerari: «Ho descritto anch’io persone che non solo peggiorano, ma sembrano aver sviluppato un disturbo tipico dovuto alla psicoterapia, un aumento del senso di confusione. Si domandano “questa emozione la provo davvero o è una mia resistenza?”, oppure dubitano del proprio giudizio, “forse mi sbaglio perché ho una tendenza ad autodanneggiarmi”. O rinviano scelte di vita per aspettare la fine della terapia».
La confusione è un rischio tipico delle terapie con approccio interpretativo come quelle psicoanalitiche. Per quelle cognitive il rischio maggiore è di adottare una tecnica efficace su un obiettivo sbagliato. «Per esempio sappiamo che se si evita una situazione temuta l’ansia aumenta, mentre affrontandola l’ansia cala. Così i cognitivisti curano molto bene anche l’ansia sociale, aiutando il paziente a esporsi. Purché il paziente sia davvero un ansioso sociale, capace di stare in relazione con gli altri. Se invece ha un disturbo evitante di personalità, o altri disturbi di personalità che includono anche aspetti di ansia sociale, allora non ha proprio le risorse per agire in un contesto sociale. Se il terapeuta usa le sue tecniche per portarlo a esporsi, poi fa disastri, si comporta in modo bizzarro e la situazione non può che peggiorare».

Un primo censimento
Per dare una scossa al dibattito, nel 2007 Scott Lilienfeld, della Emory University, ha provato a censire le terapie più a rischio di fare danni in base agli studi allora disponibili. Un censimento ovviamente provvisorio, da rivedere e affinare, pubblicato su «Perspectives on Psychological Science».
Fra gli interventi a rischio spiccava il critical incident stress debriefing (CISD) offerto alle vittime di gravi traumi, come disastri naturali, violenze, incidenti o lutti inattesi, per prevenire il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e altri. «Sebbene spesso giudicato positivamente dai pazienti, forse perché migliorano comunque e ne attribuiscono il merito alla terapia, questo intervento è risultato inefficace in molti studi e metanalisi. Non solo: diversi trial randomizzati e controllati hanno mostrato che in qualche momento del decorso i trattati stavano peggio dei controlli, forse perché l’intervento bloccava la ripresa naturale anziché favorirla», riepiloga Barlow. «Per capire che cosa succedeva si sono dovuti analizzare più in dettaglio i dati, che hanno mostrato ancora una volta che le cose cambiano a seconda dei pazienti. Fra chi aveva subito gravi incidenti stradali, per esempio, si è visto che alcuni uscivano dall’incidente con pochi strascichi psicologici e scarso rischio di PTSD, e in costoro ricevere o meno la terapia cambiava poco; altri erano più a rischio di disturbo post-traumatico, e il trattamento deteriorava ulteriormente il benessere psichico, sia a quattro mesi sia a tre anni di distanza».
Un altro esempio sono diversi interventi di gruppo per i giovani, rivelatisi più dannosi che utili. Per esempio il Drug Abuse Resistance Education (DARE), un programma preventivo nelle scuole contro le sostanze da abuso che alla prova dei fatti o non ha funzionato o, in alcuni studi, ha addirittura aumentato i problemi di alcool fra i partecipanti. Forse perché, includendo in un solo intervento svariate sostanze, ha indotto i ragazzi a vedere alcool e tabacco come scelte relativamente innocue. Altri programmi – in cui giovani con problemi di condotta sono portati a visitare le carceri per dissuaderli dalle scelte criminali, o partecipano a campi di stile militare per apprendere la disciplina e abilità sociali – aumentano in realtà i successivi tassi di delinquenza, forse perché danno origine a gruppi di giovani le cui «cattive abitudini» finiscono per apparire come norme condivise. Al pari di un intervento di terapia cognitivo comportamentale per aiutare i giovani in difficoltà a scuola, che ha peggiorato le pagelle e aumentato gli abbandoni, forse perché riunendoli ne ha fatto ancor più un gruppo a sé, isolato dal resto della scolaresca. «Ma queste sono ipotesi. Sarà importante indagare con rigore i meccanismi dei danni», osserva Lilienfeld.
I verdetti non vanno intesi come bocciature senza appello, perché in alcuni casi possono segnalare solo la necessità di rivedere alcuni aspetti o impieghi della terapia. Sul CISD, per esempio, è sorto un vivace dibattito in cui alcuni hanno sostenuto che i fallimenti dipenderebbero da un suo impiego erroneo.
La situazione quindi è complessa. «Un’analisi corretta può richiedere molte distinzioni», osserva Barlow. «A volte bisogna scorporare le varie componenti di un intervento efficace per capire che alcune in realtà fanno male, riducendone l’efficacia». Per esempio, negli interventi per attacchi di panico e agorafobia basati sull’esposizione controllata agli agenti che li scatenano, alcune tecniche di respirazione e rilassamento, usate durante l’esposizione per diminuire il disagio emotivo, si sono dimostrate in realtà dannose perché riducono anche i benefici, mentre non creano problemi se usate dopo.
«Idem per gli esiti: un trattamento può ridurre alcuni sintomi ma esasperarne altri, o far crescere la preoccupazione per quelli restanti, o crearne di nuovi. E vanno considerati ancora tanti elementi, come la dipendenza dal terapeuta, la riluttanza a cercare future terapie e persino i danni fisici o ad altre persone», aggiunge Lilienfeld. Occorre poi non confondere i peggioramenti con le normali esasperazioni momentanee dei sintomi prodotte da certe terapie, come quelle in cui ci si espone a fattori ansiogeni, che nell’immediato aumentano il malessere per poi ridurlo, o le terapie di coppia che all’inizio possono accrescere i conflitti coniugali.

Monitorare e correggere
Come ridurre i rischi di danni? Un’idea viene da Michael Lambert, psicologo alla Brigham Young University negli Stati Uniti, che fin dal 1992 lavora per migliorare l’esito delle terapie tramite un monitoraggio sistematico del loro andamento. Prima di ogni sessione i pazienti rispondono a un breve questionario su come si sentono e come pensano che stia andando la terapia (l’OQ-45, Outcome Questionnaire 45), che indaga su sintomi, stati emotivi, rapporti interpersonali e ruoli sociali. Se le risposte si scostano dalle traiettorie usuali per quel tipo di pazienti, si sottopone un altro questionario (l’ASC, Assessment for Signal Clients), che indaga varie dimensioni della terapia come il rapporto con il terapeuta, la motivazione, le relazioni sociali o eventi significativi della vita, per individuare dove sono i problemi (per esempio se il paziente si sente poco accolto, o poco compreso, o non ha fiducia), e indicarlo al terapeuta con una serie di raccomandazioni. Questo sistema di rilevamento e analisi del feedback è commercializzato da una società di cui Lambert è socio. «Il monitoraggio è un’ottima soluzione, perché i terapeuti di solito non si aspettano che anche in una terapia ben condotta possano esserci effetti negativi e spesso non li notano», osserva Semerari. In un test su 40 terapeuti con 500 pazienti, per esempio, Lambert col suo metodo è riuscito a individuare in corso d’opera 36 dei 40 pazienti che alla fine erano peggiorati, mentre i terapeuti stessi ne hanno previsti pochissimi.
Più in generale, cinque studi hanno mostrato che il monitoraggio predice l’85-100 per cento dei pazienti in cui la terapia non funziona o fa male, e 12 trial clinici, condotti dal 2001 al 2015, hanno mostrato che migliora gli esiti. In particolare, come è facile immaginare, il monitoraggio non offre nulla in più a chi sta già facendo buoni progressi, ma fa differenza per quel 20-40 per cento di pazienti che sta andando fuori strada, permettendo di modificare l’intervento.
Negli studi di Lambert il rischio di danni non pare dipendere tanto dal tipo di terapia quanto dal terapeuta e dal suo rapporto con il paziente. «I nostri approcci non sono conflittuali», dice Lilienfeld. «Ho esaminato le terapie più dannose, da cui dovremmo guardarci o in cui c’è qualcosa da cambiare. Lambert considera le altre, quelle che in generale funzionano ma in alcuni casi vanno storte».
«Da istituzioni e associazioni scientifiche cresce la pressione per il monitoraggio sistematico dei progressi a garanzia della qualità delle terapie. Nell’ultimo decennio, oltre al nostro sono emersi almeno una decina di altri strumenti, e nuovi metodi per risolvere i problemi che si palesano. È un grande cambiamento di paradigma in atto. E come molti cambiamenti incontra resistenze: spesso i clinici cooperano malvolentieri. Perché la nuova mentalità si affermi, dovrà entrare nella formazione degli psicologi», dichiarava Lambert a dicembre su «Psychotherapy».
«Denunciare i problemi delle psicoterapie non è un tentativo di indebolirle, ma di migliorarle, perché porterà a perfezionare le tecniche e le pratiche. Ogni branca della medicina impara dai propri errori, ed è inconcepibile che per le psicoterapie non valga lo stesso», osserva Scott. «Noi raccomandiamo di standardizzare i concetti e la terminologia, rilevare sistematicamente gli eventi avversi nei trial e monitorare gli effetti indesiderati e gli abbandoni delle terapie nei servizi clinici, indagando più a fondo quando questi superano i valori usuali per verificare la qualità del servizio. Questi tre semplici passi farebbero fare grandi progressi. Così eviteremo di ritrovarci impantanati nelle stesse discussioni fra cinquant’anni», dicono Crawford e colleghi.
Più nell’immediato si possono già dare alcuni consigli a chi intraprende una psicoterapia. «Prima di dare il consenso informato e iniziare la terapia, i pazienti dovrebbero avere chiaro che cosa stanno per fare, i principi e i metodi su cui poggia», suggerisce Crawford.
«Una buona terapia deve aiutarti a chiarirti le idee su te stesso e su come funzioni. E di conseguenza, nel tempo, a regolarti meglio nella vita quotidiana. Se dopo cinque o sei mesi ti senti più confuso di prima, e non è solo un problema transitorio, allora bisogna sospettare che ci sia qualcosa che non va», chiosa Semerari.