Massimo Picozzi, Mente&Cervello 7/2016, 7 luglio 2016
FALSA TESTIMONIANZA
È un anno denso d’avvenimenti il 1911. Innanzitutto si celebra il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, e il re, Vittorio Emanuele III, decide che è giunto il momento di far concorrenza alle grandi potenze coloniali. Le truppe italiane invadono la Libia, accompagnate dalle note di Tripoli, bel suol d’amore, brano composto per l’occasione dal maestro Giovanni Corvetto.
Suicidi e omicidi
Nello stesso anno si consuma la tragedia di Emilio Salgari. Oggi è noto in tutto il mondo per la creazione di personaggi come Sandokan, e la curiosità d’essersi inventato tutto senza mai aver lasciato l’Italia, ma all’epoca nessuno lo considerava un grande scrittore, e lui, per mantenere la famiglia, era costretto a produrre fino a tre romanzi l’anno. Riusciva a vincere lo stress solo grazie al centinaio di sigarette che fumava ogni giorno e a qualche eccesso nel bere.
Il ricovero dell’amata moglie in manicomio lo colpì fino alla disperazione, e la mattina del 25 aprile lasciò tre lettere indirizzate ai figli: «Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600 che incasserete da...». In tasca aveva un rasoio. Non sarebbe stata l’ultima tragedia a colpire la famiglia Salgari: due dei figli si sarebbero tolti la vita, uno sarebbe morto in un incidente, mentre Fatima, l’unica ragazza, avrebbe perso ancora giovanissima la sua battaglia contro la tubercolosi.
Sempre nel 1911 comincia anche il celebre processo Cuocolo. Tutto era iniziato il 6 giugno 1906, quando a Torre del Greco veniva rinvenuto il cadavere di Gennaro Cuocolo, quarantenne noto alle Forze dell’Ordine per la sua appartenenza alla malavita organizzata. Chi lo aveva ucciso a coltellate gli aveva sottratto le chiavi di casa, e poche ore dopo si era presentato alla porta del suo appartamento a Napoli, al quinto piano di uno stabile di via Nardones.
L’assassino, o forse erano più d’uno, s’era accanito sul corpo di Maria Cutinelli, la moglie di Gennaro, lasciando anch’ella a terra, priva di vita.
I Cuocolo erano una coppia conosciuta in città, capace di furti importanti portati a termine con una tecnica ingegnosa. Nella stagione in cui le famiglie napoletane abbienti aprivano le porte delle loro ville ai possibili affittuari estivi, Gennaro e Maria si presentavano mostrando grande interesse. Mentre la donna distraeva i proprietari e gli intermediari, Gennaro studiava la disposizione delle serrature, prendendo calchi per poi fabbricare chiavi con cui accedere facilmente ai locali.
Ai Carabinieri incaricati delle indagini, le ipotesi sul duplice omicidio pare siano soltanto tre: una rapina finita male, dato che nell’appartamento dei Cuocolo sono spariti gioielli e denaro; la vendetta per uno sgarro del Cuocolo a qualche altro criminale; oppure, ed è la pista privilegiata, un torto fatto all’organizzazione camorristica, che ha deciso di risolvere il problema.
A sostegno dell’ultima supposizione, la prova che qualche settimana prima del delitto, i vertici della camorra napoletana si erano trovati a convegno in una trattoria poco lontano da dove sarebbe stato ucciso Cuocolo.
Le confidenze del pentito
Luglio 1912, sei anni dopo. «Gennaro Cuocolo è stato ucciso da Mariano Di Gennaro, o’diciassette, Antonio Cerreto, Totonno Mezzapalla, Nicola Morra, Corrado Sortini, Giuseppe Salvi, Peppe o’curtu, tutti noti camorristi. Maria Cutinelli venne soppressa perché avrebbe potuto indicare gli autori del delitto».
Queste sono le conclusioni del Giudice Istruttore di Napoli, che prosegue: «Mandanti furono Enrico Alfano, Erricone, effettivo capo di tutta la camorra, Luigi Fucci, o’gassusaro, Gennaro De Marinis, o’mandriere, e Giovanni Rapi, o’maestro. Il delitto venne commesso per punire Cuocolo dall’avere fatto arrestare, con una spiata, un celebre ladro, Luigi Arena detto Coppola Rossa».
A sollevare il velo d’omertà che aveva sempre coperto la camorra era stato Gennaro Abbatemaggio, pregiudicato di 23 anni; detenuto, si era deciso a collaborare in cambio di uno sconto di pena e di alcuni privilegi, come quello di poter uscire di cella per trascorrere ogni notte nel letto dell’amante. A raccogliere le sue confidenze si erano messi il capitano Fabbroni e il maresciallo Capezzuti, e i due avevano faticato a star dietro ai racconti di Abbatemaggio, che una volta aperta bocca sembrava non dovesse più fermarsi. Non solo aveva fornito particolari su delitti noti, ma anche gettato luce su crimini di cui i carabinieri nulla sapevano.
Le sorprese del dopo processo
C’erano voluti tre anni prima che l’istruttoria si concludesse, e altri due per arrivare al processo. O meglio, come fu definito all’epoca, «o’processone».
Certo che con il succedersi delle udienze, era sorto qualche dubbio sulla solidità dell’impianto accusatorio. C’erano stati funzionari del Regio Governo che avevano disapprovato il lavoro del capitano Fabbroni, i fermi operati senza autorizzazione, i mandati firmati in bianco dal magistrato di turno, i testimoni indottrinati in caserma prima d’essere portati nell’aula del Tribunale. In ogni caso, dopo 288 udienze, erano arrivate le condanne, a trent’anni per i mandanti e a cinque per i mandatari.
Ma la storia del processo Cuocolo doveva riservare ancora molte sorprese: negli anni a seguire, capitò che alcuni personaggi chiave della vicenda finissero sul banco degli imputati, accusati di falsa testimonianza. Nel 1922, la Cassazione arrivò a prendere in esame un’istanza di revisione del processo, ma alla fine non se ne fece nulla, anche perché il regime di Mussolini aveva deciso di sconfiggere la criminalità organizzata in ogni sua forma.
Quanto ad Abbatemaggio, si portò a casa una condanna a cinque anni, ma uscì quasi subito, sfruttando una circolare del Ministero che permetteva di sospendere la pena se il detenuto avesse accettato la riabilitazione, arruolandosi nelle truppe destinate al fronte della prima guerra mondiale.
Non solo partì, ma tanto si distinse nel combattere gli austriaci sul Carso, da essere promosso sottufficiale e guadagnarsi tre medaglie di bronzo e una d’argento. Tornato dal fronte, s’iscrisse al partito fascista, e nel 1927 il suo nome tornò alla ribalta.
Una vita disordinata
In preda al rimorso scrisse al ministro dell’Interno e a Mussolini una lettera in cui ritrattava ogni cosa, dichiarandosi l’inventore del processo Cuocolo. «Il capitano Fabbroni e il maresciallo Pezzuti sono riusciti a strapparmi quelle dichiarazioni promettendomi di rimettermi in libertà, offrendomi una discreta agiatezza e permettendomi di sposare una ragazza di 17 anni che avevo sedotto e a cui ero morbosamente legato. Mi hanno anche minacciato con l’accusa di calunnia, associazione per delinquere e omicidio. Affronto sereno e tranquillo gli eventi e le conseguenze della giustizia. Difenderò la mia decisione, senza titubanze. Questo ho voluto dichiarare, in omaggio alla verità».
Erano però trascorsi 15 anni dal processo, e dietro le sbarre i camorristi non se l’erano passata bene. Qualcuno era morto, un paio erano impazziti e trasferiti al manicomio criminale di Aversa. Solo Mariano De Gennaro e Giuseppe Salvi beneficiarono del tardivo pentimento del loro accusatore: furono scarcerati ma non graziati, e per loro si trovò la formula della libertà condizionale.
Abbatemaggio continuò a condurre una vita disordinata, cercando di mantenere l’attenzione della stampa. Cercò di produrre una pellicola cinematografica, ma il regime ne vietò la distribuzione. Allora provò a farsi assumere come consulente dal regista Luigi Zampa per il film Processo alla città.
In mancanza di meglio dichiarò di avere informazioni decisive nel caso di Pupetta Maresca, di Giovanni Fenaroli e nel delitto di Wilma Montesi. In quest’ultimo caso, anziché la riconoscenza degli inquirenti, si prese una condanna per falsa testimonianza. Arrivò persino a vendere a un quotidiano i particolari della sua morte per suicidio, evento ovviamente mai accaduto.
Nel 1957 montò una polemica contro il direttore del manicomio di Aversa, quando si presentò alle porte dell’ospedale con la richiesta d’essere accolto. Aveva con sé la copia di una legge, l’articolo 53 emanato dal Comune, dove era scritto che «il cittadino che avverte di non essere in normali condizioni mentali ha diritto a farsi ricoverare per un periodo di osservazione dai 15 ai 45 giorni». Lo lasciarono all’ingresso fin quando non si stancò d’aspettare.
Quando morì, all’Ospedale Cardarelli, il 13 gennaio 1968, si cercò un parente che ne reclamasse la salma. Fu avvisata la sorella, l’unico familiare in vita. Non rispose mai al telegramma.