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 2016  luglio 06 Mercoledì calendario

CASADEI – Questa mattina ho preso la bici e ho fatto sedere mia moglie Pina sulla canna. Fuori di casa c’era un tipo sulla quarantina con il cellulare in mano: “Che cosa fa qui?”, gli ho chiesto

CASADEI – Questa mattina ho preso la bici e ho fatto sedere mia moglie Pina sulla canna. Fuori di casa c’era un tipo sulla quarantina con il cellulare in mano: “Che cosa fa qui?”, gli ho chiesto. Mi ha risposto: “Sono venuto dal Piemonte per fotografare la leggenda”». La leggenda, ovvero Raoul Casadei, ci ha appena accolto in casa sua. Ieri notte ha tirato tardi: spaghetti ai frutti di mare, tonno e vino. Lo produce lui. Come pure le verdure «biologiche» dell’orto, che distribuisce a tutti i familiari del «recinto», il giardino su cui affacciano tre villette. In una vivono lui, la Pina, la figlia maggiore Carolina e il compagno, in un’altra Mirna, l’altra figlia, il suo compagno e il loro bambino, Manuel, di 5 anni. Nella terza, l’ultimogenito Mirko, la compagna Sabrina, i figli Kim e Asia che a fine 2013, diventando a 19 anni mamma di Noa, ha reso Mirko nonno a 41 e Raoul bisnonno a 73. In bocca la pipa. Al muro, esposta con le altre, quella con le ali che, nel 2000, ha dato al figlio per sancire il passaggio di testimone. Mirko è il terzo della famiglia a portare avanti l’orchestra di liscio più famosa d’Italia. E più longeva: nel 2018 saranno 90 anni. Una storia che verrà celebrata tra il 21 e il 24 luglio, con una straordinaria reunion della formazione anni Settanta (e il ritorno di Raoul sul palco), nella prima Notte del liscio che, in realtà, sono 4 giorni di musica in varie località della Romagna. A fondarla era stato lo zio di Raoul, Secondo. Poi, negli anni Sessanta, anche lui aveva cominciato a suonare e comporre, e ogni tanto sparigliava con qualche «canzoncina» troppo all’avanguardia per i tempi. Come Io cerco la morosa che conteneva la parola «verginella». «Mio zio non ne voleva sapere». Ma Renzo Arbore prese a trasmetterla nel programma radio Alto gradimento e il nome Casadei arrivò in tutt’Italia. «Quando lo zio è morto, nel 1971, ho dovuto lasciare il mio lavoro di maestro elementare per portare avanti l’orchestra. Ho scritto una canzoncina che si intitolava Ciao mare e sono andato a proporla in Rai. Non dimenticherò mai la scena: c’erano il mio produttore – Roberto Dané, lo stesso di De André, gli Alunni del sole e altri – e il capo dei discografici, tutti a far casino perché avremmo voluto portarla a Sanremo. Questo dirigente, Pierluigi Tabasso, ci ha detto: “È una cosa di campagna, ruspante, non è adatta al festival”. Sono tornato a casa incazzato. La settimana dopo sono andato a parlare con Vittorio Salvetti per portarla al Festivalbar». E l’ha spuntata. «Chi faceva più ascolti ai juke-box vinceva. Quell’anno c’erano molti nomi grossi, come Elton John, i Bee Gees. Un giorno, Salvetti mi chiama: “Se vinci, sono rovinato”. E alla fine mi ha piazzato terzo». Sta dicendo che, in realtà, avrebbe vinto lei? «Non lo so. Ma il liscio in quel periodo faceva tendenza. Per dire, Romagna mia, che era stata scritta da mio zio nel 1954, è diventata popolare vent’anni dopo. Per raccontarle tutto quello che abbiamo fatto ci vorrebbe un mese: il Disco per l’estate, il Cantagiro. Nel 1974 ho scritto La mazurka di periferia, due anni dopo abbiamo seguito il Giro d’Italia. Ventun tappe, viaggiavamo su una nave costruita sul telaio di un tir. Ogni giorno, con noi, c’erano quattro, cinque ospiti: Pippo Baudo, Mia Martini, Loredana Bertè, quella matta. Veniva a trovarmi alle serate, un’amica vera. Anche con i Pooh ci incrociavamo spesso. Quello con quei capelli così, come si chiama? Red (Canzian, ndr) dava la caccia alla mia cantante, la Rita. E poi c’erano quelli di campagna, i Cugini. Ogni tanto il pomeriggio si faceva una partita a pallone. E poi, le bevute, le mangiate. Ma sa qual è stato il vero epicentro del nostro successo?». La Romagna? «Milano, Pavia. La discoteca Le rotonde di Garlasco era il locale più moderno d’Italia. Ci trattavano come divi, il mio discografico vendeva decine di migliaia di copie ancora prima che le avessimo incise. Guadagnò un mucchio di soldi». Anche lei, immagino. «I gestori si facevano concorrenza e io alzavo i prezzi di continuo. Mi odiavano perché facevo di testa mia. Iniziavo a suonare solo quando vedevo che il clima era giusto e smettevo verso mezzanotte quando la gente cominciava ad andarsene. “Dovreste continuare fino alle due del mattino”. E io: “Allora non vengo più”. Ho guadagnato tanto ma ho speso tutto». Alla fine degli anni Settanta costruì la Ca’ del liscio, un mega locale vicino Ravenna. Ha detto di aver speso otto miliardi di lire. «Tra imbrogli e ricatti mi hanno mangiato non so quanto. Intorno avrebbero dovuto esserci impianti sportivi, campi da tennis, piscine. Doveva essere un centro aperto 24 ore su 24, divenne un’incompiuta». Suo figlio è subentrato a capo dell’orchestra nel 2000. Ma lei aveva lasciato il palco già nel 1980, a 43 anni. Perché? «Ero stanco e anche un po’ malato. Sempre in giro, grappa, whisky, tranquillanti. Facevo più di 300 concerti all’anno, ho suonato ovunque, aie, campi di grano dopo la mietitura, gondole. Siccome ero il capo dovevo far tutto: prendere i contatti con i proprietari dei locali, parlare con la gente, i giornalisti. E ogni notte tornavo a casa per vedere mia moglie, i figli. In pullman i musicisti dormivano, io scrivevo le canzoni nuove. Svegliavo il pianista: “Dai, che mi è venuta un’idea”. Lui s’incazzava. Svegliavo un altro. Ero attivissimo. Oggi si dice iperattivo». Raoul arrivava, senza chiavi. Bussava. Sua madre, Adelina, gli faceva il caffè, lui le raccontava la serata. Poi andava dalla moglie: «Rompevo le scatole a tutti». Di quel periodo Mirko ricorda soprattutto le attese. «Veniva in camera alle quattro, cinque del mattino, portava sempre un regalino a me e alle mie sorelle, una sciocchezza comprata in autostrada. Quando ero piccolo capitava di avere a cena Salvetti, i giornalisti. C’era sempre un sacco di gente, non solo i famosi. Lui diceva: “Se passi dalle mie parti, bussa”. Lo diceva tanto per dire ma poi qualcuno arrivava davvero e mia madre tirava qualche moccolino tra sé e sé. Di essere cresciuto in una famiglia particolare l’ho capito col tempo. Oggi, ovunque vada a suonare, anche nel paese più sperduto, qualcuno puntualmente mi dice: “Tuo padre è già stato qui”». Nonostante Raoul abbia fatto i suoi conti e sia convinto che Mirko sia stato concepito il giorno stesso in cui morì lo zio Secondo, un «erede» predestinato insomma, lui per molti anni ha preferito ascoltare (e suonare) il rock mentre dava una mano in famiglia, prima mozzo sulla Nave del sole, la discoteca galleggiante che Raoul lanciò a metà degli anni Ottanta, poi deejay, animatore, tecnico per l’orchestra che, nel frattempo, continuava a esibirsi anche senza il leader. Anche se non lo dicono apertamente, s’intuisce che il passaggio di testimone non è stato del tutto indolore. «Avrebbe voluto continuare a fare il capo. Ma quando mi sono assunto la responsabilità, non sono stato dietro a quello che diceva lui». Con Mirko, la musica si è rinnovata e, per la prima volta, i Casadei sono volati nel mondo. «Siamo stati in tour in Australia, Canada, Brasile, Argentina, Cuba. A Melbourne abbiamo suonato all’Hamer Hall: il giorno prima c’era stato Elton John». Raoul, invece, l’aereo l’ha preso solo una volta nella vita, per andare all’Isola dei famosi nel 2006. «Mia figlia Mirna voleva anche lei una casa nel recinto, mi servivano i soldi. Giorgio Gori (all’epoca produttore Tv con Magnolia, ora sindaco di Bergamo, ndr) mi chiamava e io gli dicevo di no. E più dicevo di no, più aumentava l’offerta». Le differenze fra padre e figlio ci sono, per forza, ma li accomunano esperienze e alcuni modi di fare. A tutti e due, per esempio, è capitato di suonare a un funerale, per esaudire le volontà del defunto, ed entrambi sono fissati con la puntualità. «Ci presentiamo sempre in anticipo, è una questione di professionalità, ma Raoul supera tutti: la prima volta al Festivalbar era così in ansia che arrivò con l’orchestra già pronta, in divisa, che ancora dovevano montare il palco».