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 2016  luglio 06 Mercoledì calendario

I primi dieci nostri istituti capitalizzano oggi complessivamente circa 52 miliardi, metà del colosso inglese Hsbc e poco più del gruppo spagnolo Santander che da solo ne vale 50– Il «male oscuro» delle banche italiane, i cui titoli hanno accusato anche ieri forti perdite, a cominciare dal Montepaschi che ha lasciato sul terreno il 19,39%, si rivela in tutta la sua evidenza in pochi ma significativi confronti internazionali

I primi dieci nostri istituti capitalizzano oggi complessivamente circa 52 miliardi, metà del colosso inglese Hsbc e poco più del gruppo spagnolo Santander che da solo ne vale 50– Il «male oscuro» delle banche italiane, i cui titoli hanno accusato anche ieri forti perdite, a cominciare dal Montepaschi che ha lasciato sul terreno il 19,39%, si rivela in tutta la sua evidenza in pochi ma significativi confronti internazionali. I primi dieci nostri istituti capitalizzano oggi complessivamente circa 52 miliardi, metà del colosso inglese Hsbc e poco più del gruppo spagnolo Santander che da solo ne vale 50 o della francese Bnp-Paribas che sfiora i 49. Le prime due banche quotate a Madrid, includendo il Bbva, superano gli 82 miliardi e i tre big di Parigi (oltre a Bnp, SocGen e Crédit Agricole) superano i 90. Se poi dalle prime 10 di Piazza Affari si esclude Intesa Sanpaolo, le altre 9 (da Unicredit a Mps) capitalizzano insieme 25 miliardi. Meno del Bbva e poco più di Société Générale. Tutto ciò peraltro dopo che il terremoto Brexit ha cancellato 10 miliardi di valore di Borsa del Santander o 11 di Bnp. Anche Intesa Sanpaolo ha perso dal 23 giugno 10 miliardi, ma per la nostra banca numero uno del listino ciò significa la perdita di quasi un terzo del valore, che con il solo Brexit (considerato anche il radicamento nazionale della banca) certo non si spiega. La quota 50 miliardi, pari al 2,5-3% del Pil italiano, segnala per i nostri istituti l’uscita o la riduzione di partecipazioni da parte di investitori internazionali, che negli anni scorsi sono diventati azionisti importanti. E, come del resto fa capire il divieto Consob sulle vendite allo scoperto per Mps, la caduta soprattutto su alcuni titoli indica l’esistenza di forti componenti speculative. Ma quota 50 miliardi va sottolineata anche perché dal 2005-2006, quando ancora le nostre grandi banche valevano circa 250 miliardi, pari a un terzo di Piazza Affari, gli istituti hanno raccolto sul mercato per rafforzarsi circa 55 miliardi attraverso aumenti di capitale. La relazione fra le due cifre non è per nulla diretta ma non può passare inosservato che i due valori coincidono e resta l’interrogativo: quanto varrebbero oggi in Borsa le banche senza quegli interventi che hanno comportato cambiamenti in certi casi radicali degli assetti azionari? Tanto più che gli aumenti di capitale rendono ancora maggiore la caduta in Borsa dei titoli se osservata su un periodo di 9-10 anni. Siena, prima della grande crisi, capitalizzava quasi 15 miliardi e oggi vale 777 milioni; Unicredit dai 75 miliardi di fine 2007 è passato, dopo alcuni aumenti, a 11,2; Intesa Sanpaolo da 68,7 ai 27 circa di oggi. Al «male oscuro» delle nostre banche, che nell’ultimo anno hanno perso il 50% (Intesa Sanpaolo), il 60%-70% (Unicredit, Ubi) e fino all’85% (Mps) hanno contribuito negli ultimi mesi certo la risoluzione delle quattro banche, l’ingresso del bail-in, ma un tema ha tenuto banco: le sofferenze. Che in maggio hanno raggiunto quota 84 miliardi considerate al netto delle svalutazioni, e 200 miliardi lorde. Ciò significa che il rapporto fra le sofferenze nette e gli impieghi è passato dallo 0,8% di fine 2008 al 4,6% di fine 2015. Dato medio: per Mps è pari al doppio. Di fronte agli interventi del governo e la costituzione del fondo Atlante il «mercato» dei crediti deteriorati non si è bloccato. Gli operatori esteri sono fermi. Uno stop che può forse essere letto insieme ai disinvestimenti da parte degli asset manager globali. Sergio Bocconi