Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 03 Domenica calendario

ARGENTINA CONTESA DA DUE MITI

L’Argentina compie duecento anni: a Buenos Aires è tempo di commemorazioni. Il rito più delicato è però quello dei bilanci. Per taluni, due secoli sono tanti e si notano: vedono un Paese stanco e diviso che non guarda agli errori del passato per evitarli ma per ripeterli. Per altri l’Argentina è giovane, un puledro scavezzacollo che non matura. Grosso modo due eserciti si fronteggiano ai bordi del crinale che fende la storia argentina: quello nazional-popolare della galassia peronista e quello liberal-democratico, eterogeneo ma antiperonista: è la grieta , la crepa che ha spesso spaccato il Paese. Su una cosa sola tali eserciti sono senza volerlo d’accordo: l’epoca d’oro si perde in un passato sempre più remoto. Rimane da stabilire quando e perché ebbe inizio il declino argentino.
Il declino: è l’ombra che grava sulla storia argentina; storia che si staglia come sinfonia incompiuta di un Paese che aveva tutto per brillare ed è diventato l’eterno gigante dal grande futuro alle spalle (l’ennesima sconfitta il 26 giugno nella finale della Copa America la rappresenta bene). Come mai? Diagnosi ve n’è a non finire. Menzionarle sarebbe troppo lungo, per cui illustro la mia.
Prima, però, alcune parole sui miti nazionali in guerra tra loro. Quello antiperonista ha nostalgia per l’età liberale: quando compì cent’anni, l’Argentina era tra i Paesi più prosperi al mondo, capitali e immigrati vi correvano a «fare l’America», la cultura fioriva, l’istruzione pure, le ferrovie portavano il progresso; e le istituzioni liberali garantivano ordine e libertà. Vero, ma solo in parte. Tale moneta doveva avere un lato oscuro se a seppellire quel mondo giunse il peronismo. Come altrove, le élite liberali non riuscirono a includere le masse.
E il mito peronista? È l’opposto: l’Argentina uscì dal buio del dominio oligarchico e straniero grazie a Perón, che guidò il popolo eletto alla redenzione, gli diede dignità, distribuì la ricchezza, industrializzò il Paese. Se la vendetta aristocratica non lo avesse abbattuto nel 1955, l’Argentina avrebbe vissuto felice in pace. Ma è una favola: il peronismo fu popolare ma totalitario e dilapidò l’enorme ricchezza d’allora preferendo l’uovo oggi alla gallina domani.
Entrambi questi miti hanno buone ragioni. Essendo però assurti a ideologie, sono diventati caricature; assomigliano alla storia ma ne esagerano taluni tratti. Una cosa però è certa: dalla caduta di Perón in poi, l’Argentina corse su un piano inclinato fino allo schianto, alla violenza politica, al terrorismo di Stato, al tracollo. La sua equazione politica era insolubile: se libero di esprimersi, il popolo votava peronista, ma il peronismo imponeva la tirannia; se il peronismo veniva proscritto, nessun governo poteva stare in piedi. Più che domandarsi di chi sia la colpa del declino, meglio chiedersi quali ne siano state le cause.
Di chiavi per spiegare l’arcano ne servono molte e nessuna aprirà tutte le porte ma ce n’è una più utile di altre. Riguarda il rapporto tra politica e religione nella storia argentina. Come ogni Paese alle soglie della modernità, anche l’Argentina affrontò dagli inizi del XX secolo i delicati nodi di tale passaggio; urbanizzazione, conflitto sociale, domanda di partecipazione politica. Tutto normale. Ma lo scoglio più arduo per i Paesi ispanici fu il passaggio dall’unità religiosa al pluralismo politico, dalla nazione intesa come comunità spirituale alla società intesa come comunità politica.
Di per sé causa di tanti naufragi dei liberali latinoamericani, quello scoglio s’erse a montagna invalicabile in Argentina per effetto della grande immigrazione: nessun Paese al mondo ne fu altrettanto plasmato; tale fu lo sconvolgimento sociale e culturale che essa causò da produrre per reazione un’ossessiva nostalgia di unità e identità; tale fu la paura della frammentazione da indurre lo sviluppo di una vera e propria sindrome dell’unanimità. Nostalgia di identità e sindrome d’unanimità alimentarono il più potente mito nazionale argentino: il mito della nazione cattolica; la cattolicità divenne il collante di cui il Paese era in cerca e su di essa dovevano poggiare l’ordine politico e la legittimità delle leggi. Non era cattolico il passato argentino? Non lo erano in gran parte gli immigrati? Quel mito fu la tomba dei liberali argentini, la clava nazional-popolare: Parlamento, partiti, libertà individuali, mercato parvero alla sua luce indebite fratture di ciò che Dio voleva unito. Contro di essi, tenuto a balia da esercito e Chiesa, già cardini della cristianità coloniale, il peronismo emerse trionfante a ricucire la frattura tra popolo sovrano e popolo di Dio. Difatti non si presentò mai come partito tra partiti, ideologia tra ideologie, bensì come il movimento e l’ideologia della nazione, fuori dal quale correva lo Stige dell’anti-nazione.
Diversamente da Uruguay e Cile, dove la democrazia si affermò grazie alla separazione tra politica e religione, il mito della nazione cattolica dette i natali al populismo peronista, alla sua tipica visione manichea del mondo: bene e male, verità ed eresia. Ma quel mito era tanto potente quanto illusorio: voleva imporre unanimità a una società plurale. Peggio: poiché la legittimità dell’ordine politico non risiedeva nelle istituzioni dello Stato di diritto ma nella conformità alla cattolicità della nazione e del pueblo , infuriò la lotta tra chi ne vantava il monopolio: militari devoti, sindacalisti cristiani, studenti guevaristi, preti rivoluzionari. Pretendendo d’essere Tutto, il peronismo implose; insieme al mito da cui era nato: dagli anni Sessanta infuriò un’orgia di violenza in nome di Dio e del Vangelo, una spietata guerra di religione su cui i militari posero una tremenda lapide.
Qualcuno capì allora che quell’intreccio tra politica e religione era insano, che nuoceva a entrambe. Troppo spesso, notò un vescovo, s’era usato il Vangelo per legittimare se stessi e delegittimare gli altri. Ciò che urgeva era riconoscere l’autonomia della politica, ristabilire lo Stato di diritto, fondare una sana democrazia. All’Argentina serviva un bagno di laicità. Il ritorno alla democrazia nel 1983 sotto la guida di un uomo retto e laico come Raúl Alfonsín generò grandi aspettative: era finito il declino? Da allora, però, tanti traumi hanno ancora ferito la democrazia argentina. E a ogni colpo che essa perdeva, l’antico mito rialzava il capo. Finché l’elezione di un Papa argentino gli ha ridato vigore. Sulla democrazia argentina grava così ancora una fonte di legittimità superiore. Ne minerà come un tempo l’autorità?