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 2016  luglio 06 Mercoledì calendario

DUOMO FABBRICA ETERNA


Nel cuore di Milano c’è una montagna di sabbia e conchiglie. Trecentoventimila tonnellate di carbonato di calcio, la base di un marmo dai magici riflessi ocra e rosa, unico per bellezza, sublime dopo la pioggia, che danno vita alla cattedrale più fotografata del mondo. La terza per grandezza, dopo San Pietro, a Roma, e Siviglia.
Un titano che ospita 135 guglie, 3.400 statue, di cui 2.300 esterne, 200 altorilievi, una facciata alta più di 56 metri, cinque navate che raggiungono un’altezza massima di 45 metri, 52 colonne interne alte più di 24 metri con un diametro di 3 metri e 40 centimetri. È il carbonato di calcio, che dà anima alla pietra estratta nella cava di Candoglia, l’elemento condizionante della storia del Duomo.
Circa 800 milioni di anni fa, in un angolo di Val d’Ossola, con il ritiro del mare, si sono depositate grandi masse di conchiglie, sabbia e limo che con lo scorrere dei millenni sono sprofondate negli abissi della Terra. Sottoposte a temperature altissime e a pressioni mostruose, si sono fuse dando vita a un marmo unico per bellezza, tornato verso la superficie circa 200 milioni di anni dopo. Il marmo di Candoglia. Un marmo molto resistente, ma con una debolezza: l’ammaloramento. Dopo due secoli di esposizione agli agenti atmosferici, il carbonato di calcio si deteriora, perde consistenza, quasi si sfarina. Cede. Ogni parte della cattedrale, di cent’anni in cent’anni, va sostituita. Le statue, i fregi, le guglie, gli ornati, i mostri che spuntano dalle pareti, le cariatidi, i doccioni, gli altorilievi esterni, tutto prima o poi viene vinto dal lavoro del tempo e va cambiato. E, come gli esami di Eduardo De Filippo, i lavori, attorno al Duomo, non finiscono mai.
Non poteva saperlo Gian Galeazzo Visconti, Conte di Virtù, primo duca di Milano, signore di una larga fetta d’Italia settentrionale, quando, nel 1386, decise che la cattedrale dovesse essere fatta col marmo di Candoglia.

Sul finire del Trecento, Milano aveva due cattedrali vicine tra di loro, quasi gemelle: una estiva, la basilica di Santa Tecla, e una invernale, Santa Maria Maggiore. Erano il cuore della città, il luogo in cui si liberava l’energia della preghiera. Dopo il crollo di un campanile il vescovo di Milano, Antonio da Saluzzo, incitato dal popolo, decise la costruzione di un nuovo tempio dedicato a Santa Maria Nascente, abbattendo le due vecchie chiese.
Per il prelato, avrebbe dovuto essere una grande cattedrale in mattoni, edificata secondo i parametri iconografici del gotico lombardo, derivazione assai stretta del romanico: un edificio tipico dell’architettura trecentesca italiana. Il progetto si scontrò con le ambizioni di potenza del Conte di Virtù, signore della città. La famiglia Visconti si impadronì dell’impresa,
ne fece uno strumento per celebrare la propria grandezza e quella di Milano. Per rivelarsi al mondo come potenza legata al Nord Europa, scelse per il Duomo uno stile diverso, poco diffuso in Italia, dilagante nel settentrione della Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra: il gotico fiammeggiante. Di conseguenza optò anche per un nuovo materiale, ben più ricco del proletario mattone: il marmo.
Allo scopo di realizzare l’ambizioso progetto politico-religioso, Gian Galeazzo creò, nel 1387, la Veneranda Fabbrica del Duomo, che ancora oggi si occupa della manutenzione e della sopravvivenza della cattedrale, e le donò la cava di Candoglia, che per secoli, fino a oggi, è rimasta l’unica fornitrice delle pietre del Duomo e può fornirle solo a esso, in un’esclusiva confermata nei secoli. Quelle pietre, così belle, così dure, ma così vulnerabili al lavoro della pioggia e del vento, alle insidie del tempo.
La cava si trova su una montagna non troppo alta della Val d’Ossola, un luogo magico, affacciato sul panorama prealpino con una vista mozzafiato sul lago di Mergozzo. È qui che si può vedere il negativo del Duomo di Milano, una voragine profonda 150 metri, alta 55 e larga più di 30. È qui che, una volta all’anno, si coltiva (termine tecnico per significare l’estrazione) il marmo, lo si sega e si fa la quadratura. Ogni 12 mesi la Fabbrica del Duomo chiede 100 metri cubi di pietra per i lavori di restauro e di rifacimento di parti della cattedrale, ma solo il 20 per cento di quello che è estratto è utilizzabile, quindi la cava cresce nei secoli senza sosta. A Candoglia c’è anche un primo laboratorio degli ornatisti, gli artigiani che lavorano il marmo. Un tempo provenivano dalla scuola di avviamento professionale “contessa Tornelli Bellini”, ora arrivano dalle tante cave della media valle.
Dai tempi di Gian Galeazzo fino alla comparsa degli autocarri, il trasporto è sempre avvenuto servendosi di barche speciali, le cosidette piatte. I blocchi di marmo erano fatti scendere a valle grazie a un sistema di slitte. Poi erano imbarcati a Mergozzo. Attraverso il Toce, le piatte arrivavano al lago Maggiore, imboccavano il Ticino e passavano sul Naviglio Grande, giungevano a Milano e si ancoravano alla darsena di Sant’Eustorgio. Attraverso un sistema di chiuse, realizzato dalla Veneranda Fabbrica del Duomo su progetto di Aristotele Fioravanti, arrivavano fino al Laghetto, oggi Via Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale.
Per volere del Conte di Virtù e dei suoi successori, le imbarcazioni che trasportavano i materiali per il cantiere erano esenti da pedaggi e gabelle, non pagavano tasse di nessun tipo. Le piatte del Duomo erano contraddistinte dalla scritta ad Usum Fabricae Operis, da cui deriva l’espressione “a ufo”, poi diffusa in tutta l’Italia del Nord, come sinonimo di “gratuito un po’ usurpato e un po’ furbesco”. Un’ulteriore interpretazione dell’espressione “a ufo” è legata alla consuetudine delle piatte che scendevano dal Toce fino ai Navigli di offrire gratuitamente passaggi alla popolazione: andare a Milano a ufo, per i lombardi, significava andarci senza spendere un soldo.

Oggi i grandi blocchi non arrivano più a due passi dal Duomo ma sono trasportati su quattro ruote nel moderno laboratorio della Certosa, dove si trova il più grande centro marmisti della Veneranda Fabbrica del Duomo. Ogni anno, tecnici espertissimi battono con un martello, pietra per pietra, tutto il perimetro della cattedrale. Picchiano sui semplici blocchi, sugli ornati, sugli archi, sulle statue. Alcuni di loro, esperti alpinisti, si arrampicano fin sulle guglie, con corde e ramponi. Se il rumore della pietra è acuto e forte, vuol dire che tutto va bene. Se è grave e sordo, significa che il processo di ammaloramento è avanzato e il pezzo va cambiato, fosse anche una statua antica e preziosa. A questo punto, entra in azione il laboratorio. Qui si prodigano fresatori-rifilatori, marmisti quadratori, ornatisti, scultori, apprendisti e manovali.
Dalla Fabbrica arrivano i disegni dei pezzi da sostituire. In base a essi il marmo proveniente da Candoglia, grazie a pantografi, mole diamantate e strumenti digitali di ultima generazione, viene ridotto in conci squadrati. Dopo l’intervento delle macchine a controllo numerico, che portano la prelavorazione dei manufatti a livelli impensabili soltanto qualche anno fa, tocca ancora agli straordinari artigiani del laboratorio trasformare i conci in foglie di acanto, putti, corone di frutti, ali di angeli, corpi di demoni, volti mostruosi, aureole. «Solo la mano dell’uomo», spiega il responsabile della Certosa Gino Giacomelli di Carrara, «può dare al marmo la vita e ricreare quelle emozioni, quei sentimenti, che i grandi scultori di secoli trascorsi hanno generato».
Una delle grandi meraviglie di Milano, forse il suo luogo più incantato, si trova nei cortili del laboratorio della Certosa: è il cimitero delle statue della cattedrale. Centinaia di angeli, diavoli, cavalieri, santi barbuti, martiri, mostri, eroi, profeti, governanti, peccatori, beati, accatastati uno sull’altro a formare una quinta metafisica e surreale. Statue ancora piene di vita esteriore ma morte dentro, scavate dal passare del tempo, sgretolate dall’acqua, dal vento, dai gas di scarico delle automobili, vengono messe tra i giochi che non servono più dal rumore cavo di un martello.
Ma dopo il pensionamento, grazie al lavoro del caso, formano una gigantesca installazione che nessun genio sarebbe stato in grado di creare, tanto è complessa, intrigante, fuori dalla realtà e dai canoni della bellezza classica. Ogni tanto arriva un pullman di giapponesi. Scattano migliaia di foto e se ne vanno, senza capire di avere visto in faccia il tempo e la storia. La fede e l’anima di una città.
Così come non sanno su che cosa stanno camminando i 100 mila visitatori che tutte le settimane entrano nelle navate del Duomo: sotto il pavimento, sprofondata nelle viscere di Milano, esiste una vera e propria fabbrica, con una quarantina di lavoratori, macchine utensili, servizi igienici, infermeria, magazzini, persino una mensa aziendale.
È il cantiere del Duomo, il laboratorio principale della Veneranda. Nei magazzini del sottosuolo si trovano vetri colorati, argani, carrelli, oggetti fuori uso, frammenti di fregi e statue, le catene della navata centrale vecchie di secoli, scale, compressori; non si butta via nulla e si lavora a squadre, tutte quante fedeli allo stesso motto: “La casa di Dio deve essere la più bella di tutte”.
Mentre in superficie la gente prega e ammira i capolavori dell’arte religiosa, sotto terra si produce. È un formicaio, un via vai di muratori e marmisti, carpentieri e fabbri, elettricisti e falegnami, restauratori. Sono gli uomini che si arrampicano sulle guglie come scoiattoli, che sostituiscono i blocchi ammalorati, che posano sui tetti le copie fresche di scalpello delle statue spedite alla Certosa, che saldano i nuovi fregi agli archi a ogiva logorati dai secoli, che tolgono agli altorilievi la patina del tempo, che mantengono lucente la Madonnina alta sul cielo di Milano. Gli uomini che tengono viva la cattedrale. Una creatura mai conclusa, mai uguale a se stessa, in continua evoluzione. Il cantiere infinito. Lungo come la storia della città.
Il Duomo è un corpo vivo. Di pietra, sì, ma vivo. Un organismo di marmo nelle cui vene rosa e grigie scorre il sangue. E questo sangue vaga per il corpo spinto da un cuore nascosto nelle viscere del monumento.
Il tempio è stato cominciato nel 1386 partendo dall’abside e si è allungato con una lentezza esasperante senza mai vedere la luce in fondo al tunnel. È l’opera gotica fiammeggiante che il cardinale Carlo Borromeo ha voluto si facesse classica e romana in ossequio alla Controriforma. E l’opera che nel Seicento era ancora talmente aperta e incompleta che il transetto serviva da passaggio per i carri di verdura diretti al vicino mercato. L’opera a cui solo Napoleone, nel 1807, ha dato una facciata vera, quella che vediamo oggi. E neppure allora il Duomo era finito.
Girando sui tetti, che fanno da cerniera tra la città medioevale del Castello Sforzesco e la città postmoderna della torre Unicredit, moderna guglia meneghina, tra il Pirellone e San Siro, tra la Velasca e le chiese decorate in terracotta, tra i navigli e Palazzo Reale, si scoprono inserti e sculture del Ventesimo secolo e di quello in corso. Ci sono Mussolini e Primo Carnera, ci sono gli ultimi papi. C’è, milanesissimo e giramondo, San Benedetto Menni. Presto, forse, ci sarà papa Francesco, perché il cantiere non finisce mai. È la città stessa. Aperta e internazionale.
Internazionale già ai tempi del Conte di Virtù: la sua decisione di utilizzare il marmo di Candoglia al posto del mattone provocò una rivoluzione di stile che costrinse la Veneranda Fabbrica a ricercare ingegneri, architetti, scultori e lapicidi – gli artigiani che incidevano le iscrizioni nel marmo – esperti del gotico fiammeggiante nei cantieri delle cattedrali di mezza Europa. Il Duomo in progress divenne un crocevia di popoli e culture: spazio di scambio delle più diverse idee, esperienze e manualità, espresse da maestranze provenienti dalle regioni delimitate dai mari del Nord, dai Pirenei e dai Carpazi. Per questo è la più europea tra le cattedrali gotiche. Come Milano è la più europea tra le città italiane.
Il complesso, poi, è anche un archivio del passato della città. Racconta storie fascinose. A un certo punto della navata di destra c’è la statua di Gian Giacomo Medici di Marignano, detto il Medeghino, prototipo del self made man lombardo. Il Medeghino, originario di una famiglia di seconda fila, ha cominciato la sua carriera come simil-pirata di acqua dolce, a capo di una banda di malnati, riscuotendo pedaggi e gabelle sui laghi di confine. In pochi anni si è fatto tanto potente da diventare uno dei più apprezzati condottieri d’Europa, e tanto ricco da diventare una figura di primo piano a Milano e nel continente intero. Al punto che i Medici di Firenze vantavano, mentendo, che fosse loro stretto parente. Si permise di maritare la sorella Margherita con il conte Giberto Borromeo e dal matrimonio nacque il cardinale Carlo, grande sponsor della prosecuzione della costruzione del Duomo. Gian Giacomo aveva un fratello prete, Giovanni Angelo, che a suon di elargizioni da parte sua e grazie alle potenti amicizie di famiglia, divenne papa Pio IV. In cattedrale non poteva mancare l’effige del Medeghino, voluta – pare – da un altro Borromeo, il cardinale Federico.
Una storia, questa dei Medici-Borromeo, piuttosto moderna nello sviluppo. Una storia milanese. Ammirata la statua di Gian Giacomo, chiusa la visita degli interni, si può uscire nella piazza: se è appena finito un temporale, il Duomo sarà rosa e lucente. Basta guardarlo e l’anima si smarrisce. Perché quel marmo rappresenta il tempo infinito: cinque secoli, ma anche 800 milioni di anni. Gli anni delle conchiglie, della sabbia e del limo.