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 2016  luglio 02 Sabato calendario

LE UNIVERSITÀ, ZONA FRANCA PER SPORTIVI STUPRATORI


Tre anni fa Jessica Luther stava raccogliendo materiale sull’uso delle escort da parte delle università per reclutare nel loro programma di football i più promettenti giocatori liceali. In quelle stesse settimane scoppiarono due casi di violenze sessuali, uno alla Naval Academy e l’altro a Vanderbilt. Nell’articolo per The Atlantic Magazine la Luther mise in fila i fatti, trovando almeno 110 casi dal 1974 a oggi – e solo nel football. Arrivò a una conclusione ovvia: le donne sono trattate come premi e gli studenti-atleti sono portati a credere che, anche senza il loro consenso, se le possano prendere.
Nelle università americane è una cultura tanto diffusa da rendere lo stupro epidemico. Un’inchiesta condotta dalla National Public Radio e dal Center for Public Integrity conclude che una ragazza su 5 viene stuprata, l’85% conosce il suo o i suoi aggressori (molte violenze sono di gruppo) e il 90% dei casi non viene denunciato. In un’indagine su 150mila studenti di 27 istituti di istruzione superiore della Association of American Universities, il 13,5% delle ragazze dell’ultimo anno dicono di aver subito “una penetrazione non consensuale attraverso l’uso della forza fisica o in seguito a uno stato di incapacità temporanea” (erano ubriache o ottuse da altre sostanze stupefacenti).
I numeri sono molto superiori fra gli studenti-atleti che fra i non-atleti. Uno studio di quattro atenei (North Carolina State, South Florida, Northern Arizona ed Emory) ha trovato che il 54,3% dei primi ammette comportamenti riconducibili alla coercizione sessuale, contro il 37,9% dei secondi. Sulle violenze sessuali, i primi coltivano molto più dei secondi miti insensati, fra cui il fatto che se una donna è sbronza o non cerca di difendersi non è stupro. L’idea è sempre quella ammessa nel 1992 da Nigel Clay, condannato con un altro giocatore della squadra di football dell’Oklahoma University: «Avevamo la sensazione di essere al di sopra della legge e che, in ogni caso, l’università ci avrebbe protetto».
È quello che normalmente succede. Jameis Winston, il quarterback dei Tampa Bay Buccaneers, è il caso più famoso. Quand’era a Florida State una ragazza lo accusò di stupro. Al termine di un’affrettata indagine l’università concluse che Winston non aveva violato il codice di comportamento degli studenti. La procura distrettuale decise di non aprire il caso. L’accusatrice sporse formale denuncia e, sei mesi fa, l’università le ha dato 950.000 dollari (circa 855.000 euro) per fargliela ritirare.
Ma ovviamente l’epidemia, agevolata dall’uso smodato di alcolici alle feste universitarie, va oltre il football. Il mese scorso c’è stato il caso di un nuotatore della Stanford University, Brock Allen Turner, condannato solo a 6 mesi – contro una pena massima di 14 anni – per violenza sessuale su una ragazza tanto sbronza da non ricordarsi quello che era successo. Il giudice ha spiegato la sua decisione sostenendo che «un periodo più lungo di detenzione avrebbe avuto un profondo impatto su di lui». Il padre del ragazzo s’è lamentato che la sua vita era stata rovinata da quello che ha fatto in «20 minuti in 20 anni». In aula, l’accusato ha giustificato le sue azioni con una cultura di «alcool e promiscuità». Solo che, come ha scritto la vittima in una straordinaria lettera al giudice Aaron Persky, “lo stupro è la negazione della promiscuità, lo stupro è la negazione del consenso”. Comunque una ragazza si vesta, ovunque vada, sì è sì e no è no. Lo capiranno mai, gli uomini?