Paola Pilati, D – la Repubblica 2/7/2016, 2 luglio 2016
OLD ECONOMY
Davvero impenitenti. I baby boomer, la generazione nata dopo la guerra e fino agli anni ’60, si preparano a scombinare ancora le carte e a farla da protagonisti. Dopo aver rivoluzionato il costume, aver inventato il ’68, aver impresso un nuovo modo di vivere in famiglia e nella società, ora fanno scandalo anche da vecchi. L’ingresso nella terza età di questa generazione sta mettendo in allarme i guardiani della spesa pubblica, allertando gli strateghi del marketing, accendendo l’interesse di sociologi e analisti di mega trend. Perché? Perché si scopre che, man mano che si avvicinano al momento dell’uscita di scena dalla vita attiva, questi senior si comportano come nessuno prima. Restano attaccati al lavoro e se lo perdono ne cercano un altro, non passano il tempo ai giardinetti ma continuano a volersi godere la vita, resistono insomma a entrare nel cono d’ombra che ha avvolto la terza età di altre generazioni, consapevoli forse del fatto che nei prossimi anni saranno forza dominante. Sorpresi? Eppure la demografia è la prima a testimoniarlo, e a livello globale. Secondo il più recente rapporto sulla popolazione delle Nazioni Unite (http://esa.un.org/unpd/wpp/publications/files/key_findings_wpp_2015.pdf) i 901 milioni di ultra sessantenni di oggi (il 12% del totale) saliranno a un miliardo e 400mila nel 2030, poi a 2,1 miliardi nel 2050. Gli ultra ottantenni, dai 145 milioni di oggi a 434 milioni nel 2050. Gli anziani cresceranno in numero assoluto, ma anche come peso nella società, per via di una natalità calante: in breve tempo gli ultra sessantenni in Europa saranno il 34% della popolazione (oggi sono il 24), e l’età mediana del continente, quella che divide la popolazione in due metà uguali, salirà dai 42 anni attuali ai 46 del 2050. In Italia, i nostri 17 milioni di ultrasessantenni rappresentano già oggi al 28,6 della popolazione e saranno il 36,6 nel 2030. Un record. Ma la sostanza del grey power non sarà solo numerica. Sarà anche economica.
Una ricerca del McKinsey Global Institute sostiene che la demografia cambierà totalmente la struttura dei consumi mondiali, e che gli anziani della parte più sviluppata del mondo saranno una delle forze con il maggiore impatto, pari all’onda d’urto rappresentata dalle masse cinesi a cui il nuovo potere d’acquisto aumenterà la voglia di comprare, di possedere, di usare. È agli ultra sessantenni che vivono nelle città dell’Europa occidentale (ma sarà lo stesso anche in Giappone o nella Corea del Sud), che si dovrà il 60% della crescita dei consumi nei prossimi anni, cambiandone decisamente la qualità. Eppure, la senilità crescente della nostra società porta con sé uno spettro. Quello della secular stagnation, la stagnazione secolare, termine lanciato dall’economista Alvin Hansen dopo la Grande depressione, e ripreso nel 2013 da Larry Summers, professore ad Harvard ed ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, per dipingere il nostro futuro. Di chi è la colpa se la crescita é fiacca, e la produttività calante? Della lunga stagione dei tassi negativi, della bassa inflazione, certo, ma nella interpretazione di alcuni anche dei troppi senior che restano in vita, e in attività. La cui produttività sul lavoro, si sostiene, é ineluttabilmente decrescente. Vero o falso? Per quanto molti economisti si siano esercitati nel dimostrare un legame tra età e prestazioni declinanti, nessuno c’è riuscito in modo definitivo e incontrovertibile, se non ovviamente per i lavori fisicamente molto faticosi. «Eppure un qualche effetto dell’invecchiamento della popolazione sulla produttività c’è», ragiona Enrico Giovannini, economista che ha guidato l’Istat ed è stato ministro del Lavoro, «ed è perché ha a che fare con tre aspetti: una minore capacità di adattarsi al cambiamento, una diversa propensione al risparmio e all’investimento, e un cambiamento della struttura dei consumi». In pratica, spiega Giovannini, è più difficile con l’età abituarsi all’introduzione di nuove tecnologie (che aumentano la produttività), e se i tuoi consumi cambiano nel senso che invece che comprarti la Ferrari (è naturalmente un paradosso) spendi i soldi per la badante, che ha uno stipendio e una produttività inferiori all’operaio che costruisce la Ferrari, il risultato è un freno sull’economia e sul Pil. Come lo è anche il fatto che, dopo aver risparmiato nella vita attiva, da anziano cominci a consumare i risparmi, che quindi finiranno per evaporare, scomparendo come risorse disponibili per l’investimento. Tutti comportamenti che però i baby boomer di oggi smentiscono, in quanto descritti dall’Istat, nel suo ultimissimo rapporto annuale, come “giovani anziani” più sani e attivi che in passato, ancora sulla breccia perché tra di loro è aumentato il tasso di occupazione, più istruiti e quindi più aperti all’uso di Internet, più famelici di occasioni culturali. Persino disinvolti nell’approfittare della gig economy, l’economia della condivisione, diventando autisti di Uber o affittacamere di Airbnb. Pimpanti perché, come afferma sempre l’istituto di statistica, un settantaquattrenne di oggi è come un sessantacinquenne del 1952: di fronte ha la stessa aspettativa di vita. Ma se anche fossero loro i corresponsabili della stagnazione secolare, questo stigma non sembra turbare quanti li vedono come delle miniere d’oro. «Il potere d’acquisto degli anziani aumenta», scrive Todd Hale, senior vice president Consumer & Shopper Insights della Nielsen: «hanno più tempo per fare acquisti e per spendere di quanto non facciano i giovani». E la società di consulenza AT Kearney stima che la capacità di spesa di questa fascia di popolazione ammonterà verso il 2020, nel mondo, a 15mila miliardi di dollari all’anno.
Le aziende, infatti, si stanno velocemente preparando a cambiare il mantra più in voga nel marketing,“Basta che piaccia ai giovani”, nel suo rovescio, “Basta che piaccia ai senior”. Prendiamo la Procter&Gamble, multinazionale americana di prodotti per la casa e per la persona: in Italia ha appena lanciato un progetto diretto alle donne tra i 50 e i 64 anni che si chiama Victoria (un sito e un magazine), proprio per avvicinarsi a un target che rappresenta da noi più di sei milioni di persone. «Oggi il 50 percento dei consumatori italiani ha oltre 50 anni e controlla l’80% della ricchezza. E in Europa il dato è lo stesso. In passato, il gruppo degli ultra-cinquantenni era composto da consumatori più poveri, che andavano in pensione e la cui vita si avvicinava al termine. Oggi non è più così», chiariscono alla P&G. Le catene dei supermercati ridisegnano la disposizione delle merci sugli scaffali per mettere i prodotti a livello delle mani più che degli occhi, e studiano le preferenze dei senior verso prodotti salutistici perché hanno scoperto che una larga fetta di loro è lì che è disposta a spendere. A Londra, il business edilizio più redditizio è quello della costruzione di case per pensionati che non hanno voglia di ritirarsi in campagna e hanno alta capacità di spesa: costano il 30-40 per cento di più di quelle normali, ma offrono servizi di accompagnamento in centro, infermiera al bisogno, e sono libere da scale. E anche le case automobilistiche, prima concentrate a conquistare gli young and smart nel pieno del successo, ora studiano da vicino le esigenze del target senior: la Ford costringe i suoi giovani ingegneri progettisti a vestirsi di una tuta che aggiunge loro peso e pancia, rende i movimenti più impacciati e blocca le articolazioni per simulare come si sente un anziano in un’auto. Naturalmente in questo scenario non mancano le disparità, gli svantaggiati, coloro che sono rimasti indietro. Ma complessivamente questa generazione di anziani ha una resistenza maggiore dei giovani alle avversità. E mentre tra i giovani le disparità si fanno sempre più abissali a seconda del contesto in cui si nasce, per i vecchi quello che conta di più è il titolo di studio: è dimostrato che chi ha la laurea vive di più di chi ha solo la scuola dell’obbligo. E non di poco: aver fatto l’università vale cinque anni di vita, dice l’Istat. Quella che oggi appare come una vera e propria lobby degli anziani, duri a morire e a togliersi di mezzo, per dirla con brutalità, pone però un problema sul fronte del welfare. Nel 2030 il sistema pensionistico verrà messo a dura prova dai figli del “secondo baby boom”, quello degli anni Sessanta, quando con il benessere economico si toccò il picco delle nascite a un milione nel 1964. Poiché costoro raggiungeranno tutti insieme la soglia dei 66-67 anni, e quindi chiederanno l’assegno all’Inps, il sistema potrebbe avere per qualche anno seri problemi a mantenersi in equilibrio. Ed è anche per attenuare questo impatto (oltre che per smussare lo scalino imposto dalla legge Fornero) che il governo sta pensando alla formula della flessibilità in uscita con il pensionamento anticipato, grazie a un prestito da restituire in futuro. Per il resto, la transizione dei baby boomer verso la linea d’ombra appare senza grandi peccati. Come dice Giovannini, da sempre teorico del fatto che il prodotto interno lordo non basta a spiegare tutto di un’economia, «la popolazione anziana può essere accusata di essere improduttiva secondo criteri di mercato, e di crescita quantitativa del Pil. Ma secondo altri criteri, non lo è affatto». Quali criteri? «Se si ragiona in termini di attività che non sono di mercato, e che nel Pil non sono calcolate ma che contribuiscono a far crescere il benessere, come quella delle relazioni familiari e della cura dei nipoti, del volontariato, della sensibilità sociale, gli anziani fanno la loro parte, eccome». Mitica generazione dell’impegno.