di MARCO PANARA, Affari&Finanza – la Repubblica 4/7/2016, 4 luglio 2016
BANCHE, L’OMBRELLONE NON FARÀ OMBRA
Luglio e agosto saranno mesi bollenti per le banche italiane. Non basterà a rinfrescarle l’"ombrellone" da 150 miliardi predisposto dal governo e da Bruxelles. Quell’ombrello è una misura prudenziale da utilizzare se qualche banca si troverà in crisi di liquidità e non avrà più garanzie da portare alla Bce per approvvigionarsi. Riguarda la liquidità e non copre l’eventuale (ma non tanto) necessità di aumenti di capitale nè sfiora la questione delle sofferenze. Ma andiamo con ordine. Le banche italiane non stanno peggio di sei o nove mesi fa, ma in Borsa valgono molto meno.
La prima ragione è il combinato disposto tra l’infelice regola del bail in scattata in gennaio e tutti i crediti deteriorati che le banche hanno in pancia. La seconda ragione è che i mercati sono mossi soprattutto da grandi operatori che più i prezzi variano più guadagnano. Le occasioni per farli variare sono offerte dalla cronaca quotidiana di questi tempi tormentati, ma quello che accade è che i suddetti operatori tendono a puntare sugli anelli deboli della catena, i soggetti o i settori che sono più fragili.
L’Italia, dal punto di vista dei mercati ha due fattori di fragilità (dal nostro punto di vista di cittadini molti di più), il debito pubblico e il sistema bancario. Al debito pubblico da un anno a questa parte ci pensa il Quantitative Easing della Bce, alle banche fino a poco tempo fa non ci ha pensato nessuno. O meglio, ci hanno pensato la Banca d’Italia e il ministro dell’Economia che però hanno potuto agire poco perché le norme europee, varate nonostante l’opposizione di un’Italia debole (tre governi in due anni), legano loro le mani. Per scansare i bollori di aprile e maggio (con gli aumenti di capitale di Vicenza e di Veneto Banca) dal cilindro è stato tirato fuori il coniglio Atlante.
Per evitare le scottature di luglio e agosto quale coniglio ci servirà? Ad alzare la temperatura, lo sappiamo tutti, è stata la Brexit, il cui effetto sulle banche italiane è molto indiretto e tuttavia rilevante. Passa per la svalutazione della sterlina, che rende meno competitive le nostre merci nel Regno Unito. Le esportazioni dirette italiane nel Regno Unito valgono il 3 per cento del pil, quelle indirette più o meno altrettanto, quello che si può prevedere non è un crollo ma una significativa limatura, che può incidere sulla crescita di qualche decimo di pil. Niente di irrimediabile, ma la crescita è assai lenta e anche quei decimi sono importanti.
Alle banche tutto ciò arriva con la maggiore fatica delle imprese esportatrici e il peggioramento del tono generale dell’economia. Non una tragedia, ma un problema in più. Brexit tuttavia è solo l’avvio rumoroso della stagione. A fine luglio ci aspettano gli stress test dell’Eba, l’autorità bancaria europea, e si teme che non saranno generosi, ovvero che potrebbero spingere la vigilanza della Bce a chiedere rafforzamenti di capitale per alcune banche. Sappiamo già che al mercato farà ricorso Unicredit, non perché sia una situazione particolare di crisi ma perché i suoi requisiti patrimoniali sono vicini al limite richiesto dalla vigilanza. Con un nuovo ceo e un nuovo piano industriale è probabile che Unicredit non abbia problemi a raccogliere i miliardi necessari (tra 5 e 7) sul mercato.
A preoccupare nell’immediato sono i soliti nomi, ovvero Mps e Carige. Delle due soprattutto la prima, per la dimensione dell’istituto e per quella dei suoi crediti sofferenti. Il problema è come affrontare questo passaggio. Chi rimpiange di non aver utilizzato gli spazi che la normativa europea offriva in passato, dimentica che la crisi delle banche italiane è successiva e di diversa natura rispetto a quelle tedesche, inglesi, irlandesi, olandesi e via elencando. Lì i buchi nei bilanci sono stati scavati dai titoli tossici dell’era Lehman, che in Italia non hanno trovato spazio: salvo i due famosissimi e perniciosissimi di Mps.
La crisi delle banche italiane è figlia del crollo dell’economia, che è arrivata nei loro bilanci soprattutto dal 2013 in poi. A quel punto la porta era chiusa e la chiave non si sa più dov’è. Quello a cui si sta realisticamente lavorando è un intervento sui crediti incagliati di Mps e forse sul suo capitale, e alla possibilità di una più estesa garanzia pubblica sulle sofferenze. Non è molto sensata (oltre che non consentita) l’ipotesi di un intervento pubblico nella ricapitalizzazione delle banche, che in Italia sono oltre 600, e tutte hanno problemi di crediti inesigibili.
Quello che si può fare è lavorare sul modello Atlante, rinforzando Atlante stesso o creando un suo gemello con un po’ più di miliardi in tasca. Un segnale è atteso a breve, con la prima cartolarizzazione di sofferenze che Atlante ha annunciato di voler fare entro luglio. Se la struttura dell’operazione sarà trasparente e convincente trovare soldi per replicare il modello potrebbe diventare meno difficile. Intanto però le banche qualcosa possono fare: mettere ordine nei loro portafogli di sofferenze e di crediti deteriorati, che sono le prime a non sapere quanto valgono. E’ assai colpevole il ritardo di non averlo fatto fin’ora, tanto che una sveglia ha dovuto darla il governatore imponendo una sorta di registro. E’ importante che questo lavoro si faccia presto: le banche pare abbiano personale in eccesso, questo è un modo per impiegarlo assai utilmente.
di MARCO PANARA, Affari&Finanza – la Repubblica 4/7/2016