Caterina Soffici, il Fatto Quotidiano 2/7/2016, 2 luglio 2016
BREXIT WIMBLEDON ANNO I. LA PERFEZIONE SULL’ERBA
Nel tempio del tennis, a una settimana dalla Brexit, per vedere l’effetto che fa. Perché Wimbledon è l’Inghilterra alla massima potenza. Qui, in questi quattro ettari e mezzo di verde dell’All England Lawn Tennis e Croquet Club c’è tutto quello che basta per capire come funziona questo Paese.
E lo spirito lo vedi ovunque, a cominciare dalla partita più iconica della prima settimana. Quando il britannico Marcus Willis, numero 772 del mondo, maestro di tennis che palleggia con le signore per 30 sterline l’ora in un club di Birmingham, si è trovato a sfidare lo zar di Wimbledon, Roger Federer, cinque volte vincitore del torneo, sul campo centrale. Tutto grazie alla nuova fidanzata che l’ha spinto a provarci. Un tifo da stadio e una sfida impossibile, lo sanno tutti e lo sa anche lui. Però Willis scende in campo e combatte come un leone ogni punto. E la signora seduta accanto a me, con la quale fino a dieci minuti prima abbiamo parlato anche di Brexit (ha votato Remain, per la cronaca) sbotta: “Ecco, questo è lo spirito british. Non si arrende mai”.
Gli inglesi sono fatti così. Sono fieri di essere inglesi. E in questa fierezza c’è anche un residuo di colonia e di imperialismo, come le divise degli Honorary Steward che indossano lo stetson di paglia, come si usava appunto nel tennis club in India. Come gli inservienti che sono quasi tutti dei paesi del Commonwealth, ma dicono “Io ero per Leave, perché Britain is Britain”.
E a fare il servizio d’ordine a Wimbledon ci sono l’Esercito e la Marina. Perché? “Perché sono una fottuta isola piena di fango che pensa ancora di essere una colonia”, commenta Tim, giamaicano, che non vede l’ora di ripartire: “Sono appena tornato dal Sudafrica, ma dopo me ne vado. Troppe cose sono cambiate, con la Brexit”.
Tennis e tradizione. Per questo Wimbledon è un posto speciale. Perché qui tutto è mitologico e c’è la tradizione al suo massimo: i giocatori tutti vestiti di bianco, scarpe e calzini compresi; il verde e il viola ovunque, colori ufficiali anche dei fiori delle aiuole; fragole e panna; pimm’s e champagne. Quello che ti aspetti c’è sempre. Compresa la pioggia, che non ha mai graziato un torneo.
E c’è la regola e la maniacalità con cui gli inglesi la applicano. Niente è lasciato al caso, tutto è codificato da un regolamento. Se potessero ti direbbero anche quante volte puoi respirare in un minuto. Meglio non suggerirglielo, però, che non si sa mai. E non ti azzardare a chinarti per accarezzare l’erba più famosa del mondo, perché non è previsto nella regola, e quindi è proibito e ti urlano dietro.
Poi c’è la coda, che qui diventa addirittura The Queue, con la lettera maiuscola. La Coda di Wimbledon è spiegata in un libretto di 25 pagine e in un codice di nove regole (rieccole) dove al punto numero uno si legge: “Sei nella Coda se ti unisci dalla fine e ci rimani finché non arrivi al tornello”. Un concetto così fantasticamente semplice che rischia di sconfinare nell’ottusità, anche se capisco che per un italiano possa essere materia incomprensibile.
E c’è la democrazia nel suo massimo spolvero popolare, perché anche il più povero degli appassionati di tennis può permettersi di entrare con i cosiddetti Grounds Ticket, biglietti da 8 a 25 sterline, non acquistabili online ma solo mettendosi nella Coda (vedi sopra) di persona il giorno stesso.
Tutto il resto sfiora la follia, e un biglietto per la finale sul campo centrale può arrivare anche a 16 mila sterline, in un turbinio di follie tipico di Londra, la città della ricchezza smodata, di ricchi e super ricchi provenienti da ogni angolo del globo che non si fanno problemi a pagare qualsiasi cifra se vogliono qualcosa. Ma con il tuo biglietto da 8 sterline puoi vedere la stessa partita, ma stai seduto sull’erba nella collinetta del Club invece che nel Royal Box, bevi birra invece che champagne, ma ci sei. E anche tu fai parte del Mito.
E anche questo è Wimbledon, tra box di Vip, sponsor milionari che non si vedono ma sono onnipresenti, non con quelle strisce plebee che corrono lungo i campi durante le partite di calcio. Capisci che l’Evian è sponsor ufficiale perché non vedi altra acqua in giro. E lo stesso per la Lavazza (almeno il caffè è buono, non sbroscia acquosa inglese). Qui ci sono solo fornitori di classe e le palle, per esempio, sono Slazenger dal 1902.
Quindi a loro volta diventano mitologiche come tutto quello che tocchi dentro questo Tempio del Tennis. Ed è giusto che lo chiamino così. Perché dentro questo Club inglese succede ogni anno una magia che lo rende unico e tutti gli anni qui si celebra il tennis nella sua purezza.
E così, dopo una giornata a guardare raccattapalle impeccabili, che non sbagliano un lancio e si muovono con una regia perfetta come piccoli soldatini. Dopo aver camminato per vialetti senza una cartaccia (nonostante il passaggio di 30 mila spettatori) e aver visto sciamare con ordine il pubblico all’uscita dai cancelli, quando al calare del buio le partite vengono sospese e sui campi scendono altri impeccabili inservienti per pulire l’erba dal terriccio e dalla polvere, si capisce bene che Brexit è ovunque. Anche a Wimbledon. Quelle tradizioni che fino a una settimana fa avremmo guardato come un segno di pittoresca eccentricità, adesso le guardi con un altro occhio e capisci quanto sia profondo l’euroscetticismo e dove affondi le sue radici.
di Caterina Soffici, il Fatto Quotidiano 2/7/2016