Barbara Cataldi, il Fatto Quotidiano 4/7/2016, 4 luglio 2016
SIAE: STORIA DI UN MONOPOLIO ANACRONISTICO, A SPESE NOSTRE
La Siae è solo l’ultimo bubbone che sta per scoppiare nel “brufoloso” governo Renzi. Il suo monopolio legale nel campo dei diritti d’autore è ormai anacronistico: superato dalla direttiva Barnier che in settimana verrà recepita dal Senato; bocciato dall’Antitrust che ne ha chiesto il superamento in tempi brevi anche in Italia; criticato da artisti molto popolari, come Fedez e Gigi D’Alessio, già passati alla concorrenza straniera (più precisamente alla Soundreef fondata a Londra da imprenditori italiani).
Ciò che più infastidisce, però, è l’inefficienza a spese nostre. Ti sposi e qualcuno suonerà dal vivo per farti ballare con gli amici? Metti in conto un obolo per la Siae. Organizzi una festa in quel locale? Se accendi lo stereo ti tocca sborsare sempre un obolo per la Siae. E il pub con musica di sottofondo o il bar con video musicali inclusi? Obolo alla Siae anche per loro. Persino i negozi con la filodiffusione e gli organizzatori delle feste di paese pagano una tassa alla Siae. Fiumi di soldi. Di sicuro una buona fetta dei 574 milioni per il diritto d’autore incassati dall’ente l’anno scorso.
E non è finita. Anche quando compriamo lo smartphone o il tablet nuovo diamo qualcosa alla Siae; quando compriamo una chiavetta Usb, un cd vergine su cui registrare, un decoder e perfino un televisore. Il contributo non è sempre irrisorio: va dai 10 centesimi ai 32 euro per ogni dispositivo, a seconda della sua capacità di memoria. A sborsarli dovrebbero essere i produttori, ma è chiaro che l’onore viene scaricato sistematicamente sul prezzo pagato dal consumatore.
Nel 2015 l’equo compenso per copia privata, così si chiama questo contributo, dovrebbe aver fruttato almeno altri 150 milioni di euro, se si legge dentro gli ultimi disponibili.
Ma i nostri soldi dove finiscono? In teoria dovrebbero andare a remunerare musicisti e sceneggiatori per il loro lavoro creativo. In pratica non si sa, tanto che la Società italiana degli autori ed editori è stata commissariata già tante volte: l’ultima nel 2012.
Da allora è cambiato poco. Un mese fa in Senato Laura Puppato del Pd, con altri colleghi, in un’interrogazione al ministro dei Beni e delle Attività culturali, Dario Franceschini, ha chiesto di istituire una commissione per controllare l’operato dell’ente, accusato di mala gestione e poca trasparenza, e addirittura ha chiesto “se risponda al vero che la Siae abbia affidato ad un intermediario estero, denominato ‘Valeur Capital’, o ragioni sociali simili, diverse centinaia di milioni di euro di diritti, e li abbia allocati in strumenti finanziari in giurisdizioni estere, tra cui il Lussemburgo e la Svizzera e se le commissioni pagate per tale servizio siano a valore di mercato e tracciabili fino al beneficiario ultimo”.
Che cos’è la Siae? Perché siamo tutti costretti a pagarla se vogliamo ascoltare musica, ma nessuno riesce a controllarne i bilanci? Si tratta di una società a base associativa, costituita da autori ed editori nel lontano 1882. Gestisce il mercato in regime di assoluto monopolio dal 1941 ed è sottoposta alla vigilanza dei ministeri Cultura ed Economia. È un carrozzone con 1.200 dipendenti da quasi 90 milioni all’anno, in rosso da tempo e in ritardo di anni coi pagamenti dei diritti d’autore. Anche se il suo nuovo presidente Filippo Sugar ha dichiarato con orgoglio di aver fatturato 782 milioni di euro, di averne ridistribuiti 617 e di aver chiuso il bilancio 2015 in pareggio.
“Ladri”, Laura non ha dubbi. Cantante romana con più di un disco alle spalle, vive di musica. “I piccoli locali dove si suona dal vivo sono tartassati – ci spiega – le tariffe sono molto onerose, un borderò per un concerto in un pub lo paghi tra i 100 e i 150 euro e agli artisti arrivano solo spiccioli”. E aggiunge: “Il monopolio è irragionevole. Soundreef, per esempio, fa pagare il borderò la metà e all’artista dà i due terzi di quanto hanno pagato gli organizzatori del live”.
Nonostante tutto, la maggioranza in Parlamento durante la discussione della direttiva Barnier, che metterà in concorrenza la Siae con le imprese europee, ha bocciato tutti gli emendamenti per la liberalizzazione del mercato nazionale, limitandosi ad approvare un ordine del giorno del senatore Pd Ichino che impegna il governo a intervenire “nella direzione dell’apertura dell’attività di intermediazione ad altri organismi di gestione collettiva”. Ma quando e come si intenda affrontare la rivoluzione non è si sa.
“Senza concorrenza il 70% degli artisti non riesce neanche a rientrare della tariffa d’iscrizione all’ente – commenta il deputato M5S Sergio Battelli – vogliamo trasformare la Siae in un’Autorità amministrativa indipendente a tutela del mercato, e stabilire requisiti precisi per le imprese di intermediazione in concorrenza tra loro. Tutti i cittadini sono chiamati a dare il proprio contributo”.
Barbara Cataldi, il Fatto Quotidiano 4/7/2016