Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 3/7/2016, 3 luglio 2016
ZUCCHERO: «HO FATTO ANCHE CONCERTI CON UN SOLO SPETTATORE, MA SONO ANDATO AVANTI» – Iniziazione e colori di un calciatore mancato: “Giocavo in porta, con la maglia azzurra della Risorgimento
ZUCCHERO: «HO FATTO ANCHE CONCERTI CON UN SOLO SPETTATORE, MA SONO ANDATO AVANTI» – Iniziazione e colori di un calciatore mancato: “Giocavo in porta, con la maglia azzurra della Risorgimento. I miei idoli erano Giorgio Ghezzi e Lev Yashin, mi buttavo tra i piedi degli avversari e sognavo un provino con la Reggiana. La passione finì quando alla parete del negozio di strumenti vidi la mia prima chitarra gialla e nera, una sottomarca ottenuta dopo aver costretto mio padre e i familiari alla colletta”. Con le mani senza guanti e le dita sulle corde, Adelmo Fornaciari ha superato i 60 milioni di dischi venduti e scritto il dodicesimo. Si intitola Black Cat e tra un contributo di Mark Knopfler e uno di Bono, Zucchero giura che somigli: “Mi son detto ‘che mi invento? Dove vado a sessant’anni?’. Ho provato a restare me stesso rinnovandomi, a prendermi il rischio di scrivere in libertà, senza avere niente da perdere, proprio come agli inizi. ‘Ho bisogno d’amore per dio’. Tre accordi di notte e via, canzone fatta”. Tre decenni di viaggi e premi. Quello dell’Arena di Verona – dove da metà settembre suonerà per 10 date – attesta che nessuno al mondo si è esibito in più luoghi. 329 città, Italia esclusa. In una stanza d’albergo, in attesa di vederlo sul palco romano del Coca Cola Summer Festival domani sera (in prima serata su Canale5), Zucchero affronta i 35 gradi bevendo acqua minerale. Veste di nero, non fuma, ride spesso, ogni tanto si passa il volto tra le mani. Ricorda a memoria tutte e 38 le tappe dell’Americana Tour del 2014 che a Black Cat hanno fornito quelle che Zucchero chiama “le sonorità sporche” e l’ispirazione: “Abbiamo usato lo sleeping bus dormendo a bordo del caravan e fermandoci per vedere un panorama, un fiume, una palude o una piantagione ogni volta che lo desideravamo. Ci siamo riempiti di paesaggi e di odori, negli Stati Uniti mi capita sempre. Quando atterrando nel 1995 vidi le baracche sulle rive del Mississipi pensai: ‘Ma cazzo, questa è casa mia, questa è la bassa, io qui ci son già stato’. Nelle bettole sul fiume servivano gli stessi piatti che mangiavamo guardando il Po. L’anguilla, i gamberi di fiume, il pesce gatto. I miei ricordi di bambino”. La famiglia Fornaciari? Armonicamente patriarcale. Quando Cannella si sedeva a tavola si faceva immediatamente silenzio. A Cannella bastava un’occhiata. E d’altronde parlava pochissimo. Chi è Cannella? Era mio nonno che chiamavano così perché era alto e magro. La magrezza era il segno distintivo di chi si era fatto un culo così nei campi. A mio zio Guerrino detto Guerra, maoista, marxista-leninista, comunista in una terra già molto comunista di per sé, la pinguedine del parroco non piaceva per niente: “Non ho mai visto un prete magro” diceva. Chi portava la tonaca era visto come la peste. Don Camillo puro. Ma anche Novecento di Bertolucci. I genitori non mettevano ai figli i nomi dei santi e al loro posto era tutto un fiorire di comandanti partigiani e alberi. Olmo o Lauro che è per esempio il nome del mio unico fratello. Suo padre lavorava alla stagionatura del Parmigiano Reggiano. Scalava dei tralicci di legno e una volta in alto girava le forme di Parmigiano che avevano bisogno di essere mosse. Un lavoro umile e pericoloso che mollò per trasferirsi con la famiglia a Forte dei Marmi. Voleva aprire una drogheria. Quando arrivò scoprì che non gli avevano concesso la licenza e che il negozio che avrebbe dovuto rilevare non gli sarebbe stato più dato. Passammo sei mesi in una casa non finita, con il cellophane alle finestre, le brandine al centro della stanza e l’accordo con il proprietario dell’esercizio commerciale a fianco per poter usare il suo bagno. Poi suo padre il negozio lo aprì? Con fatica. Non avevamo mai un soldo. Il mio compito invernale era chiedere al macellaio e al fruttivendolo le cassette di legno per bruciarle e riscaldarci. Nonostante gli stenti, mia madre mi mandava in giro con il collo sempre ben stirato e i vestiti ordinati. Ero perfetto, così inappuntabile ed educato che i miei coetanei mi chiamavano “frocetto”. E sì che i vestiti erano un tema. “Meglio avere il frigorifero pieno che i vestiti di marca” diceva mio padre. Ma una volta finita l’estate e partiti i turisti, i paesani volevano vestirsi proprio come loro. Così compravano le magliette firmate e al negozio lasciavano i puffi. I puffi? I debiti. Papà ci soffriva. E io con lui. Con quel luogo e con quello sciupio comunque, non mi sono mai sentito in sintonia. Era tutto finto. Anche se è vero che la musica che veniva da fuori l’ho scoperta nei bar di Pietrasanta. Mentre gli altri giocavano a biliardo, io mi attaccavo al Jukebox e ascoltavo Simon & Garfunkel e Otis Redding. Se fossi rimasto in Emilia chissà, magari sarei stato più cantautore, più vicino a Vasco o al mio fratellone, a Francesco Guccini. Cosa si aspettava dalla musica? Di vivere dignitosamente. Non pensavo a fare i dischi né tantomeno ad avere successo. Volevo suonare e avevo già cominciato nel complessino della canonica. Giravamo i paesini con il manifesto scritto a mano che ogni volta attaccavo e staccavo dal muro. Sopra c’era il nome del nostro gruppo, i Lord Flowers. Ogni tanto poi baravo. Barava? Cercavano un sassofonista? Prendevo in prestito un sassofono, imparavo la scala a memoria e mi presentavo sicuro: “Sono sassofonista”. Stessa cosa con la chitarra o con l’organo. Volevo esserci. Guardavo ammirato la sezione dei fiati, i passi e persino i gilet del gruppo dei fratelli Castrucci. Le nuove luci. “Cazzo che band – pensavo – il mio sogno è di averne una del genere”. Mi avvicinai. Ero discreto ed educato. Mi invitarono alle prove. Lì conobbi una ragazzina straordinaria, si chiamava Angela. La corteggiai, venni rifiutato, mi rifeci sotto e in breve, anzi in brevissimo tempo le chiesi di sposarla. Abbiamo avuto due figlie, Alice e Irene. Il terzo, Blu, è venuto più tardi. Un giorno sostenne di averle trascurate. Non credo di poter covare troppi sensi di colpa. Non ero affermato, non ero nessuno e non avevo neanche la Siae. Dovevo sbattermi di qua e di là, provare a piazzare le canzoni a Milano e non arrendermi anche se mi sentivo rispondere sempre nello stesso modo: “Lascialo qui, ti faremo sapere”. Sei giovane, non sei più responsabile solo di te stesso e ti sbattono le porte in faccia. Quando è così sono cazzi. E fare l’orchestrale non è stata una passeggiata. Sergio Bernardini, patron della Bussola, vi concedeva una sola consumazione. Mica solo lui, era la regola. Con la chitarra a tracolla aspettavi il tuo turno, andavi in cambusa, bevevi e tornavi. Se avevi ancora sete impiegavi parte delle 150.000 lire guadagnate con la serata. Iniziavi verso le 22 e se in platea rimaneva anche una sola coppia con il secchiello dello Champagne che ti chiedeva un lento, tu quel lento glielo dovevi fare. Ha iniziato a cantare in quei locali? La mia carriera da solista prende il via in un locale di Sarzana, l’Alhambra, perché il cantante Pippo litiga con la fidanzata e non si presenta. Erano tutti preoccupati, non perché lui fosse intonato, ma perché era l’unico a ricordarsi tutti i testi delle canzoni. Credo fosse il 1971. Più di dieci anni così e poi, improvviso, il successo. Nel 1982 ero stato a Sanremo con Una notte che vola via ed ero arrivato penultimo, davanti a Vasco Rossi che aveva portato Vado al Massimo. Al concerto di Rosignano Solvay c’era un solo spettatore. L’organizzatore proponeva di rinunciare: “Ti do il 50 per cento e sbaracchiamo”. “Sono un professionista – replicai – suono per una persona o per diecimila allo stesso modo”. E cantai Una notte che vola via, la stessa canzone per un’ora e mezza. Nel 1983 aveva esordito con il suo primo album. Alla Polydor erano così contenti del risultato di Un po’ di Zucchero che di farmi realizzare il secondo disco non sembravano avere alcuna intenzione. Andai a parlare con il direttore artistico e mentre aspettavo davanti alla porta che era semichiusa, ascoltai la sentenza: “Dagli la liberatoria e mandalo via, mi dispiace, ma questo ragazzo non ce la farà mai”. Quando fu il mio turno già sapevo cosa mi sarebbe toccato. “Ci abbiamo provato – mi disse – ma è andata male. Se vuoi rimanere come autore puoi restare”. Rifiutai, salutai e sulle scale incontrai Sergio Poggi, il vice-direttore. Mi vide triste, si fece raccontare tutto e da vero generoso convinse non so come il suo capo a darmi l’ultima possibilità. Strappò 40 milioni di lire e me li diede: “Prendili, vai in America e fai il disco che vuoi – mi disse – ma ricordati che sono gli ultimi”. Un po’ pochi per un disco sul suolo americano. I biglietti per San Francisco me li regalò il proprietario di una jeanseria. Li aveva vinti, non poteva utilizzarli e voleva rivendermeli a metà prezzo. Gli dissi che in quel momento non potevo pagarglieli e lui rispose: “Fa niente, me li darai quando li avrai”, poi chiamai un mio amico, l’unico che possedesse una telecamera e lo nominai regista sul campo: “Da oggi giri tutto quel che ci succede” e infine contattai Corrado Rustici: “Tu non sai neanche il mio nome, ma io vorrei fare un disco con te”. Partii, preparammo le basi in una settimana, tornai e temendo il pregiudizio spedii la cassetta con il demo alla Polydor mettendo il nome della persona che mi aveva regalato i biglietti per l’America e il mio numero di telefono. Mi chiamarono il giorno dopo. “Ah, ma sei te?”. Raggiunsi Milano e finalmente iniziai a fare dischi come volevo proprio con le stesse persone per cui fino al giorno prima avrei dovuto smettere. Era davvero l’ultima occasione? Ultimissima. Suonai e preparai il disco con una rabbia interiore che venne fuori. “Ora faccio quello che ho sempre voluto fare – mi ripetevo – e non quello che voi vorreste che facessi”. Per loro avrei dovuto rappresentare una via di mezzo tra Riccardo Fogli e Cocciante. Li guardavo sgomento: “Ma dove cazzo le imparate certe formulette?” pensavo. Andò bene, anche grazie a Donne di Alberto Salerno, un brano che mi salvò. Rinnega i primi grandi successi? Non li rinnego affatto. Oro incenso e birra è un album che è ancora di alto livello. Io e Rustici eravamo molto creativi e con gli ingegneri del suono stranieri lavorammo a sonorità che ancora reggono i tanti anni trascorsi. Dove nasce il suono? Come dice Ennio Morricone, nella testa. È lì che osservando e respirando un’atmosfera pensi al suono molto prima che tu possa trovare lo strumento giusto per produrlo. In Black Cat ci sono clangori di catene, rumori di mazze sui bidoni del gasolio e chitarre rudimentali. Prima di viaggiare il Louisiana o aver visto Dodici anni schiavo o Django di Tarantino forse non mi sarebbe venuto in mente. Per scrivere un grande brano la disperazione è necessaria? Dicono che aiuti. Se stai bene non hai urgenze di tirare fuori storie sfiorite: le più forti e le più vere. Miserere nacque così, con una bottiglia, un cane e un appartamento vuoto, una casettina sul mare a Pietrasanta. Stavo veramente male. Era triste? Ero depresso. Peggio di me stava solo Bukowski. Lo leggevo per consolarmi. Mal comune, mezzo gaudio. Una sera mi telefona un amico americano, Rick, proponendomi di andare a mangiare in un ristorante messicano dalle parti del Ciocco. Arriviamo, mangiamo e beviamo tante tequila bum bum che bellissime ragazze con le tette di fuori ci offrono una dopo l’altra. Finiamo a ballare sui tavoli e torniamo in quattro sulla mia macchina, io, il mio amico e due ragazze. Tutti alticci. Nello stereo ho Nessun Dorma di Puccini cantato da Pavarotti. Lo metto a massimo volume, copro la distanza a tutta velocità e rientriamo a Pietrasanta. Il mio amico corre a scopare in una stanza, io cado seminudo sul tappeto e la mattina dopo, quando la governante si fa strada tra le macerie urlandomi: “Tu sei un porco” ho solo molto mal di testa e non mi ricordo più niente. Miserere la scrissi quel giorno. In quel nulla. E sarebbe anche rimasta in un cassetto se dopo aver ascoltato il materiale, i discografici non mi chiesero se avessi ancora qualcosa nel cassetto. Insistettero. La tirai fuori e li avvertii: “Questa non va bene, non c’entra niente”. “Tu sei matto, questo è un capolavoro”. “Va bene – rispondo – ma la parte tenorile deve farla Pavarotti”. È contento di non fermarsi mai? Se mi lamentassi sarei un irriconoscente. Faccio il mio mestiere, suono la musica che amo e nessuno mi mette dei vincoli. Grazie a dio sono ancora qui, chi avrebbe immaginato di arrivarci? Si è pentito di quella reazione di qualche anno fa a Cala di Volpe? Ai margini di un concerto reagì alla disattenzione di una signora in prima fila accarezzandola con “Lavandino, baraccone, bagascione, cassonetto, sei uno schifo”. Sul palco arrivarono bottiglie e cibo assortito. Forse le dissi anche tegame, ma i media non riportarono quel che era veramente accaduto. Guardando il video oggi uno può pensare: “Zucchero è fuori di testa”, ma la verità è che la signora russa in prima fila mi fece il dito medio dopo avermi dato le spalle per tutta le sera. Mi scappò qualche parola di troppo, finì su Dagospia e da lì a cascata in tutti i telegiornali d’Italia. “Qui non esco più di casa – mi dico – la gente mi insulterà e mi sputerà addosso”. Per testare la reazione popolare decisi di andare alla sagra della salsiccia. Lì fu un trionfo: “Bravo, hai fatto bene a dirgliene quattro a ’sti cafoni”. Torno a casa rinfrancato e ricevo la telefonata di Prodi. Temo la reprimenda e invece è allegro: “Abbiamo riso come pazzi”, “Tu ridi come un pazzo, Romano – rispondo – a me intanto mi tagliano a pezzetti”. E lui: “Ma va’, sei stato la cosa più divertente della serata, venderai più biglietti al prossimo concerto, vedrai”. Un’ultima domanda, Zucchero. Che ne ha fatto dei 35 esami in veterinaria? Ne ho fatti 37. Niente, che ne ho fatto? Avevo 30 e lode in anatomia degli animali domestici e oggi che vivo circondato da animali domestici in campagna, quando ho un problema telefono al veterinario. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 3/7/2016