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 2016  luglio 03 Domenica calendario

DA FISCAL COMPACT A SCHENGEN, TUTTO CIÒ CHE SERVE SAPERE

Dopo la Brexit, cioè il voto dei britannici che al 52 per cento hanno chiesto con un referendum consultivo l’uscita dall’Unione europea, ci siamo trovati tutti immersi nel più grande dramma di politica europea di sempre, travolti da acronimi e da richiami a procedure complesse note soltanto agli addetti ai lavori. Queste pagine sono una guida di sopravvivenza ai concetti chiave.
Bail-in. È la nuova normativa europea in tema di salvataggi bancari: in caso di crisi di un istituto di credito, si può intervenire con soldi pubblici o con un fondo ad hoc gestito da una “autorità di risoluzione” (per noi è la Banca d’Italia) solo dopo che azionisti, obbligazionisti e, se non basta, anche correntisti oltre i 100 mila euro si siano accollati perdite pari almeno all’8% delle passività della banca. Questa direttiva (nota come Brrd), approvata dal Parlamento Ue il 15 aprile 2014 e dal Consiglio il 6 maggio, è entrata in vigore il 12 giugno, ma l’Italia l’ha recepita solo il 16 novembre 2015, giusto in tempo per applicarla in parte a quattro banche in dissesto (Etruria, Marche, CariFe e CariChieti). Prima di allora, faceva fede la “comunicazione sulle banche” del luglio 2013, che imponeva comunque il “burden sharing”: prima di usare soldi pubblici, andavano tosati gli azionisti e gli obbligazionisti, ma solo quelli subordinati (cioè i non garantiti). La norma ha archiviato il “bail out”, il salvataggio pubblico che tutti i Paesi europei hanno fatto per salvare le banche durante la crisi: nel 2007-2013, sono stati stanziati quasi 1.500 miliardi (tra garanzie, ricapitalizzazioni e acquisti di titoli tossici).
CONTRIBUENTE NETTO. È il Paese membro che versa al budget dell’Unione europea più di quanto riceva indietro attraverso i fondi europei (strutturali, di coesione, per la ricerca etc.). È il caso dell’Italia (il saldo negativo è stato di 72 miliardi tra il 2000 e il 2014, di 7,3 nell’ultimo anno), quarto contribuente netto dopo Germania (-18 miliardi nel 2014), Francia (-7,6) e Gran Bretagna (-7).
FISCAL COMPACT. È il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea” firmato da 25 Paesi Ue il 2 marzo 2012 pochi giorni prima del parziale default della Grecia. È appunto un trattato, negoziato tra governi in parallelo alla legislazione europea. Prevede l’inserimento del pareggio di bilancio dello Stato (il saldo zero tra entrate e uscite) come disposizione “permanente” (l’Italia l’ha messo nella Costituzione) e il vincolo dello 0,5% del deficit/Pil “strutturale” (cioè non legato alla crisi economica). Una delle norme, inserita nel 2011 in una serie di regolamenti europei (“six pack”) prevede di ridurre il proprio debito pubblico eccedente il 60% del Pil a un ritmo medio di un ventesimo all’anno. Approvato da quasi tutte le forze politiche, in Italia il “Fiscal compact” è stato poi ripudiato da molti. Applicare in pieno il trattato, infatti, si è rivelato impossibile.
SCHENGEN. Nel 1985 nella città di Schengen (Lussemburgo) Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi firmano un accordo che li impegna a eliminare progressivamente i controlli alle frontiere interne e a garantire la libera circolazione per i cittadini dei Paesi firmatari, di altri Paesi dell’Unione europea (Ue) e di alcuni Paesi terzi. Dal 1990 l’accordo di Schengen è diventato parte della legislazione europea e i Paesi che chiedono l’adesione all’Ue devono recepirne il contenuto. Oggi lo “spazio di Schengen” comprende 22 dei 28 paesi dell’Ue. Irlanda e Regno Unito hanno aderito solo in parte, mantenendo controlli alle proprie frontiere. In alcune occasioni regolate dall’accordo i controlli possono essere ripristinati, per un tempo limitato. È vietato usare queste misure straordinarie per aggirare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Ma durante la crisi dei migranti molti Paesi hanno alzato fili spinati e muri proprio per tenere fuori dai propri confini chi voleva chiedere asilo.
IL TRATTATO DI DUBLINO.Nato nel 1990 e modificato fino alla versione del 2013, il “regolamento di Dublino” stabilisce che “quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. È la norma che legittima gli altri Stati europei a comportarsi come se tutti i migranti che sbarcano a Lampedusa fossero un problema dell’Italia. Ed è la ragione per cui da anni l’Italia lascia uscire dal territorio nazionale molti migranti senza identificarli, così da non doversene fare carico. Per questo i Paesi vicini chiudono le frontiere.
MIGRATION COMPACT. È la proposta del governo italiano sulle migrazioni. In sintesi: rafforziamo i progetti per creare sviluppo in Africa in modo da limitare le partenze.
ARTICOLO 50. È la parte del trattato di Lisbona che regola il recesso di uno Stato membro dall’Unione: è prevista l’uscita volontaria, che deve essere richiesta dallo Stato membro (le istituzioni europee non possono attivare la procedura). Segue poi un negoziato che dura due anni, dopo i quali i trattati cessano di applicarsi allo Stato membro, salvo proroga decisa dal Consiglio. Il negoziato serve a stabilire in quali rapporti (commerciali, di libertà di movimento delle persone, di regolazione della finanza…) sarà lo Stato “secessionista” con l’Ue. Una volta fuori, se lo Stato cambia idea, può chiedere di nuovo l’ammissione. I trattati non regolano invece l’uscita dall’euro: secondo alcune interpretazioni, l’assenza di una procedura specifica implica che l’unico modo per lasciare la moneta unica è uscire dall’Unione europea.
GEOMETRIA VARIABILE. A complicare un’ingegneria istituzionale già complessa dell’Ue, ci sono le iniziative cui aderiscono solo alcuni degli Stati dell’Ue, come l’euro e Schengen, e le Agenzie create per gestire questioni specifiche. La Gran Bretagna ora deve decidere che rapporto tenere con l’Unione: Londra è già fuori da Schengen, potrebbe aderire all’Area economica europea (Eea): è l’associazione che include oggi i 28 Paesi dell’Unione e altri (Norvegia Lichtenstein, Islanda) che beneficiano dell’accesso ai mercati europei riservato agli Stati dell’Ue, senza però partecipare alla dimensione politica del progetto europeo.
TTIP. Dal 2013 Stati Uniti e Unione europea negoziano un trattato commerciale che vuole ridurre tariffe e uniformare standard tecnici e controlli per facilitare gli scambi tra le due aree. La Commissione ha preso l’impegno a rispettare il “principio di precauzione” previsto dai trattati (si può vietare qualcosa anche se non c’è l’evidenza scientifica che sia nocivo, ma solo il sospetto) e a non trattare su punti sensibili come carne agli ormoni e organismi geneticamente modificati. Dal lato americano i documenti del negoziato sono coperti da segreto, in Europa è noto tutto (mandato negoziale, proposte europee, studi sottostanti) ma soltanto i parlamentari europei che se ne occupano e, con molti limiti, i parlamentari nazionali possono leggere il “testo consolidato”, cioè la bozza in lavorazione dell’accordo finale. Quando ci sarà un compromesso, il Consiglio (cioè i governi), il Parlamento europeo e forse i Parlamenti nazionali saranno chiamati ad approvarlo (il Commercio è materia solo europea, ma se gli accordi toccano temi di competenza nazionale devono votare anche i parlamenti degli Stati).
I COSTI. I funzionari delle Istituzioni europee sono circa 45mila, di cui 33mila alla Commissione europea, 6mila al Parlamento e 3.500 al Consiglio dei Ministri. Per essi e per le loro sedi di lavoro, l’Unione europea spende circa 10 miliardi di euro l’anno, cioè il 6% del proprio bilancio annuale, circa 140 miliardi di euro, l’1% del Pil dell’Ue (quello federale degli Stati Uniti è quasi un quarto del Pil nazionale ). Troppi? Il Comune di Roma e le sue partecipate di dipendenti ne hanno oltre 50 mila, uno ogni 60 abitanti (contro uno ogni mille dell’Ue).
Carlo Di Foggia, Stefano Feltri, Giampiero Gramaglia, il Fatto Quotidiano 3/7/2016