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 2016  luglio 02 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - L’ATTENTATO DI DACCA REPUBBLICA.IT DACCA - Sono nove i cittadini italiani morti nel blitz tra forze speciali dell’esercito bengalese e il commando di jihadisti che venerdì si era barricato all’Holey Artisan Bakery di Dacca con almeno 33 ostaggi

APPUNTI PER GAZZETTA - L’ATTENTATO DI DACCA REPUBBLICA.IT DACCA - Sono nove i cittadini italiani morti nel blitz tra forze speciali dell’esercito bengalese e il commando di jihadisti che venerdì si era barricato all’Holey Artisan Bakery di Dacca con almeno 33 ostaggi. Dopo quattro ore di scontro a fuoco nella notte solo 13 persone sono state tratte in salvo. Una volta dentro il bar ristorante nel quartiere diplomatico della capitale del Bangladesh, le teste di cuoio hanno trovato i corpi senza vita di 20 persone. Sei terroristi sono stati uccisi e uno catturato. Gli ostaggi erano quasi tutti stranieri. Dei 12 italiani presenti nel locale - 11 a cena più lo chef - 9 sono stati uccisi. La Farnesina ha confermato i loro nomi nel primo pomeriggio. Sono Adele Puglisi, Marco Tondat, Claudia Maria D’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Riboli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti. Lo chef italiano è riuscito a sfuggire all’attacco terroristico arrampicandosi sul tetto del locale. "Jaco" Jacopo Bioni, veronese di 34 anni, è stato raggiunto da Repubblica. Questa la sua testimonianza. Tra gli ospiti a cena c’era anche Gianni Boschetti, grossista di abbigliamento, salvato già venerdì da una telefonata che lo aveva indotto a uscire dal locale. All’Ansa aveva già raccontato di "almeno una decina di italiani divisi in due tavoli. In uno ero seduto con mia moglie e un cliente, nell’altro c’erano sette o otto persone". Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervistato da Sky tg24, ha sottolineato che "potrebbe essersi salvato" un altro italiano tra gli ospiti a cena. "Si trovava all’interno del ristorante ieri sera, ma forse si è reso irreperibile", ha detto il titolare della Farnesina. Dacca, il testimone: "Io scappato dal terrazzo, molti italiani non ce l’hanno fatta" Condividi Il direttore delle operazioni militari dell’Esercito, generale Nayeem Ashfaq Chowdhury, ha specificato: "Abbiamo recuperato venti corpi. La maggior parte con brutali ferite da arma da taglio. Probabilmente machete". Poi la premier Sheikh Hasina ha spiegato: "Uno dei terroristi è stato catturato, ferito e portato in ospedale. Altri sei uccisi. Siamo stati in grado di salvare 13 persone e non abbiamo potuto salvarne altre". Dopo aver seguito lo sviluppo della situazione da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Matteo Renzi poco dopo mezzogiorno rilascia con tono di profondo dolore la sua dichiarazione. "L’Italia ora piange, ma forte dei suoi valori sarà unita contro la follia di chi vuole distruggere la nostra vita quotidiana". Attentato a Dacca, Renzi: "Italia in lacrime, ma non arretra" Condividi Durante la notte, l’assenza di notizie dall’Unità di crisi della Farnesina sulla sorte degli italiani ostaggio del commando dell’Is in un locale a cento metri dalla nostra sede diplomatica a Dacca e non lontano dal luogo dove fu ucciso il cooperante Cesare Tavella, aveva lasciato presagire il peggio. E il peggio si è manifestato con durezza attraverso il laconico comunicato di Shahab Uddin, portavoce dell’esercito bengalese: "Uccisi venti civili. Per la maggior parte italiani e giapponesi". Bangladesh, feriti nel blitz per liberare il locale di Dacca assaltato dai terroristi Condividi Durante il sequestro, le forze di sicurezza hanno stabilito un contatto con i terroristi e tentato una trattativa. Quando si è capito che non c’erano margini, è entrato in azione l’esercito, un centinaio di uomini del "battaglione di intervento rapido" con blindati. Quando le armi hanno taciuto, circa dieci ore dopo l’assalto dei jihadisti, è iniziato lo stillicidio di notizie sul numero delle vittime, sulla loro nazionalità, sull’inferno che hanno vissuto. Attentato a Dacca, blitz dell’esercito: in barca sul canale per attaccare i terroristi Condividi Agghiacciante la testimonianza resa al Bangladesh Daily Star da Rezaul Karim, padre di Hasnat Karim, uno degli ostaggi. "Gli assalitori non si sono comportati male con i connazionali del Bangladesh. Controllavano la religione degli ostaggi. Chiedevano a ognuno di recitare versi del Corano. Quelli che li conoscevano venivano risparmiati, gli altri torturati". C’è poi il racconto di Sumon Reza, supervisore del bar ristorante, che a Repubblica riferisce di aver visto due degli assalitori: sotto i 30 anni, magri e con armi di piccolo calibro. "Hanno usato esplosivi per respingere la polizia. Due dipendenti del locale sono stranieri: Jaco, italiano, e Diego, argentino". "Jaco - continua Reza - è sfuggito alla cattura rifugiandosi sul tetto con altri dipendenti. Poi è riuscito a saltare fuori e a mettersi in salvo. Il locale è frequentato da molti stranieri e molti italiani. Da quel che sappiamo, in quel momento stavano cenando vostri connazionali". Il governo di Tokyo ha dichiarato che un connazionale è stato salvato ma ha confermato la morte di sette cittadini giapponesi, due donne e cinque uomini. All’emittente Times Now, il colonnello Tuhin Mohammad Masud, comandante delle forze speciali, ha aggiunto che tra gli ostaggi tratti in salvo figurano due cingalesi. I media parlano anche di un argentino e due bengalesi. Mentre in Turchia l’attentato all’aeroporto di Istanbul viene attribuito all’Is anche in assenza di una rivendicazione, questa volta lo Stato Islamico ha voluto porre il suo sigillo con grande tempestività, ben prima che le forze speciali mettessero fine all’azione terroristica. Il bilancio del triplice attentato è salito a 45 morti. Un ferito grave è deceduto oggi all’ospedale, secondo l’agenzia stampa dogan. Altre 52 persone sono ancora ricoverate nelle diverse cliniche della megalopoli turca sul bosforo, 20 delle quali in terapia intensiva. Tanta rapidità si spiega probabilmente con la necessità di mettere in chiaro la paternità del terrore in un’area della galassia del radicalismo islamico che risente anche dell’influenza di al-Qaeda. Tanto è vero che Ansar al-Sharia Bangladesh, organizzazione qaedista locale, aveva a sua volta rivendicato l’attentato. Sul suo sito, Amaq pubblicava foto di cadaveri all’interno di un ristorante, tra tavoli e piatti. Immagini orribili, dall’attendibilità non verificabile, che hanno infestato le vie digitali del Jihad. I precedenti. Dacca è già stata teatro di attentati terroristici. Il 23 aprile un professore universitario è stato ucciso a colpi di ascia da militanti islamici, prima di lui attacchi simili erano avvenuti in passato contro dei blogger e intellettuali laici. PEZZO DI STAMATTINA DEL CORRIERE Dacca come Parigi e Bamako. Nella capitale del Bangladesh, il Paese degli omicidi mirati contro atei, laici e minoranze religiose, il terrore ha colpito per la prima volta tra i tavoli di un locale: l’Holey Artisan Bakery, affollato di stranieri — anche italiani — e diplomatici, ma pure di gente del posto che per l’unico pasto giornaliero concesso durante il Ramadan si era recata in questo caffé-ristorante. Al grido di «Allahu Akbar» un commando di almeno otto giovani in pantaloni e maglietta è entrato in azione poco prima delle 21 locali (le 17 in Italia) sparando e lanciando molotov nel locale situato nel Gulshan, il quartiere diplomatico, a un passo dall’ambasciata italiana e non lontano dal luogo in cui a settembre fu ucciso il cooperante Cesare Tavella. Nello scontro a fuoco con le forze di sicurezza sono morti almeno due agenti. I terroristi si sono barricati all’interno prendendo in ostaggio decine di persone, e anche qualche bambino, riporta la stampa locale. Tra loro molti stranieri, anche italiani: «sette» secondo quanto dichiarato al Tg1 in tarda serata dal nostro ambasciatore a Dacca, Mario Palma, che ha parlato di persone che lavorano nel mondo della moda. L’allerta sarebbe stata data da uno di loro che al momento dell’assalto si trovava nel giardino del ristorante a telefonare e che è poi stato tratto in salvo dalla polizia. Poco prima circolava la notizia di un panettiere italiano impiegato lì e riuscito a fuggire che diceva di aver lasciato nel ristorante altri sei connazionali, tutti imprenditori. Non sono invece arrivate conferme alla voce inizialmente diffusa dalla tv India Today , che parlava di due italiani morti oltre a due poliziotti uccisi e 11 feriti gravi. La Farnesina, fin dall’inizio, «non ha escluso la possibilità» di italiani prigionieri, e con il passare delle ore questo timore si è fatto via via più concreto. Il ministro Paolo Gentiloni ha twittato: «Seguo momento per momento la situazione a #Dakka. Ansia per gli italiani coinvolti, sono vicino alle famiglie». Il premier Matteo Renzi ha abbandonato la serata per il restauro del Colosseo per tornare a Palazzo Chigi e seguire gli sviluppi. Per ore i terroristi sono andati avanti a sparare colpi contro i poliziotti fuori. Le tv locali hanno mostrato gli agenti armati con giubbotti antiproiettile pronti al blitz ma è stato chiesto dal governo di sospendere le dirette. Il corpo di élite della polizia anticrimine del Bangladesh ha temporeggiato per permettere prima una via negoziale che salvasse tutti gli ostaggi, ma a notte fonda le trattative sono fallite. Tra gli ostaggi, anche lo chef argentino, ha riferito un suo sottoposto, Sumon Reza, che è invece riuscito a scappare: «Hanno lanciato diverse molotov scatenando il panico — ha raccontato — erano armati di pistole, spade e bombe, hanno gridato “Allahu Akbar” prima di far esplodere le bombe». Secondo lui a essere rimaste intrappolate sono almeno 35 persone, tra cui una ventina di stranieri. Tra gli ostaggi anche Maliha, studentessa della Northsouth University: era lì con quattro amici quando è iniziato l’assalto e da lì è riuscita a telefonare a suo padre e a lanciare un Sos, «intorno alle 23.30», ha detto un testimone a un giornale locale. L’attacco — il primo con prima presa d’ostaggi nel Paese — è stato rivendicato da un gruppo vicino all’Isis, Ansar al Islam, in un messaggio diramato dall’agenzia di stampa «Amaq», legata al Califfato, che ha affermato di aver ucciso nell’assalto «più di venti stranieri di diversa nazionalità». Il dipartimento di Stato Usa ha detto di non poter confermare l’autenticità di questa rivendicazione. Paese a stragrande maggioranza musulmana (90%), il Bangladesh è laico sulla carta ma alle prese con una preoccupante regressione integralista. Nonostante alcuni attacchi siano stati rivendicati da Isis, finora il governo laico della premier Sheikh Hasina ne ha attribuito la responsabilità a gruppi locali . Sull’onda di questo crescendo fondamentalista, la polizia ha lanciato a giugno una massiccia operazione anti jihadista che ha portato all’arresto di oltre duemila persone. Ma nella maggior parte dei casi si è trattato di criminali comuni e non di estremisti islamici. Un stretta che non è servita a scongiurare il «venerdì nero» di Dacca. Alessandra Muglia VIVIANA MAZZA SU CDS La comunità italiana di Dacca è sotto choc. Sono trecento persone appena: qualcuno impiegato nelle Ong, una ventina tra ambasciata italiana e diplomazia, la maggior parte nel settore tessile. Molti di loro sono in vacanza fuori dal Paese in questo mese del Ramadan. Diversi, contattati al telefono rifiutano di parlare: non vogliono esporsi e qualcuno dice di avere amici che sono stati presi in ostaggio nel locale. Stanno attaccati fino a notte fonda ai siti Internet locali. Le tv no, inutile, non trasmettono in diretta sull’attentato: ordine del governo, che non è uno dei più liberali. Valentina Lucchese, 34 anni, lavora a Dacca da due per la Ong italiana Terre des Hommes, ha preso solo qualche giorno per tornare in Italia, ma ha il volo di ritorno già fissato per l’8 luglio. Spiega che l’attacco contro l’Holey Artisan Bakery, nel quartiere diplomatico di Gulshan, non è casuale: era il ristorante più popolare del momento tra gli stranieri. «L’ambasciata italiana è a tre minuti a piedi, sulla stessa strada, la 79. Quel locale è frequentato da moltissimi italiani, ci sono chef stranieri tra cui un nostro connazionale. Al mattino vai lì a prendere un cappuccino e un croissant, che non è una cosa comune a Dacca. Poi da poco avevano aperto un ristorante, e trattandosi di una villa con giardino, nel weekend le famiglie si stendevano sul prato. Non ci sono molti posti dove puoi farlo in totale relax a Dacca». Ma la situazione era tesa da tempo. «L’Holey si affaccia su un lago. E si trova in fondo alla strada, non ci sono guardie armate», continua Lucchese. «A volte scherzavamo tra di noi: “Se fanno un attentato, i terroristi potrebbero venire dal lago”. Si scherza perché è un modo per reagire a una tensione crescente». Gli italiani sapevano bene che c’era un’escalation di estremismo e violenza nel Paese. «Tutto è iniziato a cambiare a ottobre, dopo l’uccisione del cooperante italiano Cesare Tavella. Da lì ci sono stati una serie di episodi: il prete italiano aggredito, poi preti indù e buddhisti uccisi, una serie di personaggi laici e blogger, poi un attivista gay che lavorava per l’ambasciata Usa e pubblicava un magazine gay, l’hanno preso a colpi di machete a casa sua, l’hanno fatto a pezzi insieme al suo compagno. Da lì le cose sono cambiate. Mi dispiace per il Bangladesh, perché non è il Pakistan, non è l’Afghanistan, era un Paese con una maggioranza moderata musulmana, dove convivevano minoranze indù, buddhiste, cristiane, dove la classe media ha una mentalità aperta, ispirata alla convivenza tra diversi, ma sta venendo meno per la presenza di cellule fondamentaliste che si ispirano a gruppi internazionali come l’Isis». La morte di Tavella ha portato a cambiare le regole della sicurezza per gli stranieri. Le istruzioni dettate dall’UNDSS, il dipartimento della sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dall’ottobre 2015 indicavano che «i nostri movimenti erano autorizzati solo a Gulshan — continua Lucchese — e di sera solo in macchina anche se è una zona in cui ci si può muovere tranquillamente a piedi. Raccomandavano di non sposarsi dalla zona diplomatica. Ma non è servito». «Offriamo accesso gratuito all’istruzione e ai servizi sanitari e psico-sociali ai bambini più svantaggiati, voglio tornare», spiega la responsabile di Terre des Hommes, «anche se devo parlare con il mio quartier generale», precisa. «So già che non potremo più uscire la sera dopo le 7.30, e di giorno soltanto in macchina». Così il Bangladesh rischia di trasformarsi in un altro Afghanistan. LORENZO CREMONESI SU CDS È uno Stato Islamico sempre più «qaedizzato» quello che vediamo crescere, agire e colpire con furia aggressiva e crudele nelle ultime settimane. Alcuni osservatori leggono nella ferocia con cui si accanisce contro civili innocenti una sorta di estremo singulto, l’agonia della disperazione prima della fine. In realtà, l’Isis cambia pelle, si rinnova e rinasce con vesti nuove. È nella logica di ogni movimento ed ideologia estremista, è sempre stato così: se non si adatta al mutare delle circostanze perde seguaci, perde spinta propulsiva e muore. Siamo ormai lontani dall’universo del giugno 2014, quando il neo Califfo Abu Bakr Al Baghdadi pronunciava arrogante il sermone della sua auto-presentazione al mondo dalla moschea appena occupata nel cuore di Mosul. Oggi i suoi adepti agiscono nell’ombra, si muovono nella clandestinità dei terrorismi più tradizionali. Ma occorre non farsi illusioni: il Califfato resta più vivo e aggressivo che mai. Trova nuove strade per manifestare la sua aspirazione all’attacco totale contro l’Occidente e contro i suoi oppositori, compresi i regimi e Stati Islamici. Il fatto è evidente: quella che era la sua novità, ovvero la dimensione semistatuale in Iraq e Siria, appare messa in dubbio, addirittura in crisi totale. Il Califfato perde in Siria, dove la sua capitale Raqqa è oggi circondata da milizie curde, oltre all’esercito fedele a Bashar Assad e dalle formazioni di guerriglieri sunniti appoggiati dagli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e alcuni tra i maggiori Paesi del Golfo. In Iraq, dopo Tikrit e Ramadi, negli ultimi giorni ha perso il controllo suo Falluja, la città della storica resistenza sunnita contro l’invasione americana del 2003. Una sconfitta clamorosa. Sino ad un mese fa gli stessi comandi americani affermavano dietro le quinte che sarebbero stati necessari ancora mesi di battaglie. E invece alla fine i militanti jihadisti si sono dati alla fuga, disperdendosi nel deserto e verso i grandi laghi salati di Al Anbar. A Bagdad segnalano che quasi 300 dei loro potrebbero essere stati uccisi negli ultimi tre giorni. Lo stesso vale per Sirte. Doveva essere la capitale di Isis in Libia, da cui il movimento mirava a minacciare Misurata e preparava le cellule per colpire Tripoli. E invece è ormai solo una questione di poco tempo. Magari una settimana, forse poco più. Ma tra pochissimo Sirte sarà la Fort Alamo di Isis in Libia. Le milizie di Misurata e quelle fedeli al governo di Tripoli promettono che non faranno prigionieri. A Sirte il collasso di Isis equivarrà ad un grande bagno di sangue. Isis potrebbe perdere in un colpo solo tra i 300 e 700 tra i suoi quadri combattenti migliori. Da qui la sua «qaedizzazione», Isis si rilancia come movimento terroristico classico, torna a somigliare alla Al Qaeda di Osama Bin Laden prima maniera. Un gruppo di militanti fanatici dispersi nel mondo globalizzato del terzo millennio. Il fatto che sia meno Stato organizzato su di un territorio ben definito e invece più movimento lo rende tra l’altro più difficile da colpire. Un fenomeno già evidente in Afghanistan, dove le sue cellule sono in concorrenza con i talebani e si muovono liberamente in Pakistan, sino all’India. Si annacqua anche la sua tradizionale determinazione a colpire in Europa, definita nei suoi documenti come «ventre molle» del fronte occidentale. L’attentato all’aeroporto di Istanbul a inizio settimana e adesso questo in Bangladesh ne sono la prova evidente. Sono la manifestazione della svolta verso l’internazionalismo più disincantato. L’Isis si fa più fluido, opera dove meno è atteso, colpisce dove riesce a causare il maggior numero di vittime. Non ci sono più territori privilegiati per le sue operazioni. Il mondo intero diventa potenziale obiettivo dei suoi attentati e dunque sarà necessaria maggior cooperazione internazionale per batterlo sul campo. Lorenzo Cremonesi GUIDO OLIMPIO SU CDS P rima uno stillicidio di omicidi. Quasi cinquanta nell’arco di diciotto mesi in diverse zone del Bangladesh. La fase della preparazione per intimorire i tanti nemici, provare le proprie forze, reclutare. Poi il salto di qualità con l’attacco seguito dalla presa d’ostaggi, secondo le tattiche impiegate prima da Al Qaeda e quindi dallo Stato Islamico che si è subito assunto la responsabilità per dare maggiore peso alla sua campagna globale. Basta agire per essere inclusi nella chiamata alla lotta lanciata dal portavoce Mohamed al Adnani nei primi giorni di giugno in vista del Ramadan. La tradizione estremista nel Paese musulmano risale ai tempi della lotta contro i sovietici in Afghanistan. Allora molti bengalesi si sono uniti ai mujaheddin e, successivamente, non pochi sono confluiti nel movimento di Bin Laden. Chi è rimasto legato alla linea di Osama è finito in fazioni come Ansar al Islam e Jamatul Mujaheddin. Gruppi composti da alcune centinaia di elementi suddivisi in cellule. Una presenza diffusa che ha portato a molti agguati. Spesso azioni condotte con armi semplici, sufficienti comunque per dare del filo da torcere alle autorità. Una minaccia raddoppiata dall’apparizione dello Stato Islamico. Nell’agosto del 2014 un nucleo di estremisti ha dichiarato fedeltà ad Al Baghdadi, un giuramento ribadito in ottobre. Come in altre regioni del Califfato, i militanti hanno proceduto per tappe. Prima il proselitismo, l’attività di reclutamento e propaganda, lo studio dei possibili target. Il 28 ottobre 2015 l’apertura del fronte: i terroristi assassinano l’italiano Cesare Tavella. Pochi giorni dopo nuovo colpo con l’omicidio di un giapponese. A seguire altri episodi, con le vittime talvolta aggredite a colpi di machete. Colpevolmente il governo ha reagito con un atteggiamento incomprensibile e pericoloso, perché la linea è stata quella di negare l’esistenza dell’Isis all’interno dei confini. Difficile però sostenere questa finzione davanti al ripetersi di episodi, così come alle rivelazioni dello stesso movimento. La rivista Dabiq , organo di informazione dello Stato Islamico, ha rivelato l’identità del presunto leader, lo sceicco Abu Ibrahim al Hanifi. Dietro questo nome si nasconderebbe in realtà Jamin Chowdhury, un attivista che ha trascorso molto tempo nel sud ovest dell’Ontario, in Canada. Per gli analisi il capo è stato abile nel pescare affiliati tra medici, ingegneri, architetti. Profili alti, di persone non proprio ai margini della società, individui con un ottimo background. Quindi li ha divisi in due schieramenti, uno nella zona di Mirpur e l’altro in quella di Gazipur. Lavoro meticoloso, già visto in Medio Oriente o in Nord Africa secondo un canovaccio sempre più simile ad un manuale. Una strategia vincente perché persino alcuni qaedisti si sono avvicinati a quelli che in teoria dovrebbero essere dei rivali. L’intelligence ha anche osservato che Al Hanifi ha delle ambizioni regionali. Nei messaggi ha sostenuto di aver instaurato rapporti con la «provincia» del Khorasan, ossia i fratelli dell’Isis che si sono aperti la strada sull’asse Pakistan-Afghanistan con attentati o incursioni guerrigliere. Una tendenza ad allargare l’orizzonte operativo confermato dall’arresto di alcuni sospetti terroristi del Bangladesh a Singapore. Senza dimenticare poi i volontari arrivati, da tempo, in Siria e in Iraq. È in questa cornice che va chiusa la strage nella capitale. Con l’Isis che sceglie la formula di sangue ormai ben nota che prevede l’assalto ad un locale pubblico (o in hotel), i fendenti mortali sui clienti e la cattura di «prigionieri» inermi. In un sovrapporsi di operazioni coordinate multiple e atti individuali che accomunano Parigi, Giacarta, Istanbul, Dacca. E domani chissà quali altri città diventate bersagli dell’offensiva. Guido Olimpio