Piero Colaprico, la Repubblica 2/7/2016, 2 luglio 2016
TUTTE LE BUGIE DEL FAVOLA
Non gli hanno creduto, i giudici: il “Favola” ha ucciso la “Farfalla”, questo dice la sentenza. Ma sino all’ultimo, sino a ieri mattina, il carpentiere che per aiutarsi a vivere inventava storie su storie ci ha provato: «Sono un ignorantone, ma non un assassino», giurava. Aggiungendo, a proposito di Yara, la bambina uccisa a 13 anni, il 26 novembre del 2010, mentre tornava dalla palestra delle “farfalle”, un perentorio: «Voglio guardare negli occhi i suoi genitori».
L’ha detto pestando sul tavolo la bottiglietta d’acqua minerale e creando un percettibile movimento delle spalle in qualche membro della Corte d’assise, che dieci ore dopo gli avrebbe dato l’ergastolo. I giudici togati e popolari non possono essere smemorati e creduloni come quei telespettatori e commentatori via Internet che troppo spesso, in questi anni noir, sono stati bombardati dalle “ricostruzioni” omissive e parziali e trasformati in fan. Ricorda bene, l’intera Corte d’assise, che Massimo Giuseppe Bossetti, mentre era detenuto, aveva «tentato il suicidio». Era stato disposto un veloce e preoccupato accertamento nelle celle bergamasche. Risultato? L’avevano trovato ingrassato, abbronzato e senza alcuna mania di farla finita.
Allo stesso modo, i giudici – e se questo è un punto cruciale lo si saprà dalle motivazioni della sentenza – sanno quante volte l’imputato le sparava grosse per squagliarsela dai cantieri dove s’è rotto la fragile schiena a forza di sgobbare. E quante volte Marita, la moglie, si è arrabbiata durante i colloqui in carcere: «Ma perché raccontavi quelle bugie? Addirittura hai detto che eri malato di cancro…». Era così convincente, in queste finzioni, il “Favola”, che una volta che era sparito dal cantiere erano andati a cercarlo in ospedale.
E dentro al carcere bergamasco? Ha raccontato a un “concellino”, uno che divideva la cella con lui, di avere un conto estero con 586mila euro, ad altri che era stato sparato e con una detenuta – nonostante un simile processo in corso – ha avviato una corrispondenza a luci rosse talmente intima («Mi metto la crema due volte al giorno, mi piace avere la pelle liscia») da lasciare interdetti.
Non appare un caso che i giudici durante il processo spesso abbiano distolto lo sguardo dai suoi occhi azzurro gelo in cerca di benevolenza: «Ma è possibile uno così che abbia ucciso una bambina, che le abbia inferto ferite tali non da uccidere, ma da farla soffrire?», ripete la claque in aula e via Facebook, riferendosi all’analisi dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo. Ma, al di là della risposta fornita dalla sentenza di primo grado, le bugie di Bossetti sono state davvero infinite perché ieri qualcuno potesse credergli senza tentennamenti.
In aula sono emerse a decine e, per quanto appaia incredibile, è come se lui e i suoi avvocati le avessero dimenticate, sotterrate: Bossetti era e resta un enigma. E sul tema dell’inganno non è possibile, da cronisti, tacere su almeno su una delle singolari coincidenze familiari. La mamma, Ester Arzuffi, è stata interrogata dai figli, che hanno scoperto all’improvviso di essere stati concepiti non dal padre anagrafico, ma dall’autista di bus Giuseppe Guerinoni. E a loro mamma Ester ha risposto così (c’è l’intercettazione): «Ma chissà, lo conoscevo, forse sul bus mi sarò seduta sul posto sbagliato».
C’è un insondabile abisso di menzogne che lega Massimo alla madre, e non solo, ma è rimasto inesplorato. Migliaia di parole sul Dna mitocondriale che nei tribunali del mondo ha valore zero, su autocarri, peli, computer con ricerche pedoporno, quasi una valanga di parole altisonanti per nascondere il protagonista che vanta, dice lui, «un’indole buona».
Lui può descriversi come vuole, ma a un estraneo l’imputato Bossetti nelle quarantacinque udienze del processo appariva non raramente perso nei suoi pensieri, con reazioni infantili e teatrali quando veniva accusato. Come se non si rendesse conto di dov’era. Viceversa, ieri gli occhi del suo avvocato e stratega, Claudio Salvagni, si sono inumiditi: «Ha parlato con il cuore», dirà poi il legale.
Il cuore. Ma che cosa c’è nella testa del carpentiere di Mapello, che ieri s’è messo a parlare di sé in terza persona? «Mi rendo conto che è impossibile assolvere il Bossetti», ha detto lui stesso, interrompendo una specie di lezione di diritto al pubblico ministero. Una perizia psichiatrica sarebbe stata utile? Nessuno l’ha chiesta, forse l’imputato — viene da dire — ne avrebbe avuto diritto.
C’è un dettaglio ancora sul tema. Quando alle 20.35, nell’aula di Bergamo, risuona la parola «Ergastolo» resta impassibile, ma quando capisce — la presidente Antonella Bertoja legge adagio e chiaro — che perde la patria potestà, alza la fronte congestionata al soffitto bianco dell’aula. E lo fissa. Perché è lui, questo dice la sentenza di ieri, che aveva compiuto il delitto perfetto contro una ragazzina dell’età dei suoi e ne aveva preso le distanze, raccontandosi come un padre e un marito modello. Aveva ucciso ed era rimasto uno “del posto”, mimetizzato e impassibile mentre il cerchio piano piano gli si chiudeva intorno grazie alle indagini coordinate dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. Che ieri non ha mai guardato il condannato.
L’hanno criticata per essersi mostrata fredda con la famiglia della piccola vittima, ma – rivela uno dei suoi – la prima volta che ha visto la signora Maura, la mamma di Yara, invece di parlare è scoppiata in lacrime, un pianto dirotto.