Andrea Kerbaker, Sette 1/7/2016, 1 luglio 2016
L’INTELLETTUALE FUORICLASSE CHE STECCÒ CON PROUST
C’era una volta Parigi, la capitale mondiale delle arti. La Ville lumière, dove per strada poteva capitare d’incontrare Pablo Picasso che conversava con un amico pittore, magari Modigliani o Matisse. Oppure, a una festa, si poteva incrociare il mondano Marcel Proust, o ancora James Joyce, che proprio lì avrebbe dato alle stampe la prima edizione dell’Ulisse. In quella città c’era qualcuno più fortunato e talentuoso che poteva permettersi di frequentare tutti questi e mille altri artisti che si aggiravano per i suoi quartieri. Come André Gide, per esempio; quello scrittore di successo, nato nel 1869, un po’ arcigno, fondatore della più prestigiosa rivista intellettuale dell’epoca, La Nouvelle Revue Française, temutissima rassegna di quella Francia letteraria di cui decretava le sorti positive e negative. Un uomo al centro di mille incontri con la società colta, che poi raccontava fedelmente nel suo diario, tenuto per 63 lunghissimi anni, dal 1887 al 1950: più di mezzo secolo, e che mezzo secolo. Quel diario che oggi, dopo tanto tempo esce in Italia per l’editore Bompiani in un’edizione completa, tradotta da Sergio Arecco e meravigliosamente curata da Piero Gelli, che firma anche una esaustiva introduzione. Due volumoni di oltre 3 mila pagine, dall’aspetto tutt’altro che invitante, eppure ricchissimi di spunti e racconti.
Gide è stato un letterato e intellettuale universalmente ammirato: vincitore del Nobel nel 1947, tre anni e mezzo prima della scomparsa, è autore di almeno un capolavoro assoluto, La sinfonia pastorale e di due o tre titoli tra quelli che contano del Novecento letterario, come I sotterranei del Vaticano e I falsari; tuttavia, ora è un po’ dimenticato. Paradossalmente, molti di quelli che lo nominano oggi lo fanno per ricordare un suo clamoroso errore: il rifiuto del primo volume della Ricerca di Proust, La strada di Swann che, a causa di quel diniego non fu pubblicato dall’editore Gallimard, con cui Gide ha sempre collaborato, ma da Grasset. Solo dopo l’uscita e il successo del libro, Gide seppe ricredersi con una lettera molto citata, in cui si scusava con Proust e lo invitava a pubblicare il resto dell’opera da Gallimard, come poi avvenne. Nel diario non c’è traccia dell’episodio; vi si trova però un emozionato resoconto di alcune visite fatte all’amico nel 1921, quando già è molto malato: «Benché nella camera dove mi riceve si soffochi, lui trema dal freddo; è appena uscito da un’altra stanza molto più calda, dove sudava. Si duole che la sua vita non sia più che una lenta agonia... Dice di dover stare per ore intere senza muovere il capo, resta sdraiato tutto il giorno, e per più giorni di seguito. Ogni tanto si passa lungo le ali del naso il taglio di una mano che pare morta, con dita stranamente rigide e allargate; non c’è niente di più impressionante di quel gesto maniacale e sinistro, che sembra il gesto di un animale o di un pazzo». E forse, chissà, in quelle visite pietose, così a lungo ritardate («Da quattro giorni mandava ogni sera un’automobile, ma ogni volta mi sono sottratto») c’era anche il desiderio di farsi perdonare quella iniziale incomprensione.
Rapporti conviviali. L’errore era grande, d’accordo; d’altronde ci può stare in una vita passata nell’editoria, a manovrare manoscritti di autori grandi e grandissimi, a partire da Paul Valéry e Paul Claudel, presenti in decine di pagine. Scrittori con cui i rapporti erano a volte conviviali, come con molti dei narratori contemporanei: «Gran piacere di rivedere Saint-Exupéry – scrive nel marzo del 1931 – in Francia da appena un mese, ha portato dall’Argentina un nuovo libro (Volo di notte) e una fidanzata. Letto l’uno, vista l’altra. Mi sono molto congratulato con lui, soprattutto del libro; mi auguro che la fidanzata sia altrettanto soddisfacente». A Gide piace anche Boris Pasternak, incontrato decenni prima del successo mondiale del Dottor Zivago: «L’unico in Urss con il quale sia riuscito a sentirmi in confidenza». A volte, quegli incontri danno luogo a veri e propri dibattiti letterari; e, se siete di quelli che si rammaricano quando a una cena un gruppo d’intellettuali s’imbarca in una conversazione con paroloni per voi incomprensibili, potete consolarvi con questo appunto: «Ieri sera è scoppiata una discussione abbastanza incalzante, ma anche abbastanza incoerente, malgrado la precisione dei giudizi e la straordinaria eloquenza di Malraux; una discussione alla quale ho pure cercato di partecipare, finché in me non è prevalsa la stanchezza: faticavo a seguirli e ad afferrarne bene il pensiero». Non va meglio con Thomas Mann, incontrato nel giorno di una forte emicrania, che dà a Gide una «volontà di ostinazione... al pranzo che segue la lettura di Mann all’università, seduto tra lui e Bruno Frank, la cui conversazione è piacevolissima, non esito a contraddirli... in ogni caso, si tratta di un atteggiamento poco cortese».
Tutto questo avviene nella stessa mitica città in cui si aggirano gli scrittori anglosassoni degli anni Venti, da Scott Fitzgerald a Hemingway, per il quale, notoriamente, «Parigi è una festa»: quel clima così efficacemente recuperato da Woody Allen nel suo Midnight in Paris. Ma Gide, ossessionato dalle tematiche religiose e turbato da una omosessualità con tendenze pedofile che manda in bianco il suo matrimonio e a varie riprese suscita scandalo, è temperamento troppo serio per cogliere gli aspetti mondani. Probabilmente per questo i suoi rapporti con questi scrittori, peraltro molto più giovani di lui, sono piuttosto modesti, quasi inesistenti; così come nel diario non è mai menzionato un pittore allegro come Dalí. C’è invece Picasso, visitato nel suo mitico studio agli albori della sua fama, nel 1905. Gide è incuriosito dalla sua attività, ne ha parlato con un amico comune e ne ha ricevuto una lettera d’invito: «L’interesse nei miei riguardi che voi palesate mi tocca molto, nascendo da un gusto come il vostro, e sarò ben felice di ricevervi in visita nel mio atelier». Detto, fatto: Gide si presenta, ma senza preavviso e non lo trova. Fa, quindi, la cosa più comune del mondo: «Infilo il mio biglietto da visita sotto la porta e torno indietro».
Proverbiale avarizia. Il diario è gremito di questi incontri, di letture, qualche volta sorprendenti (molto Maigret, per esempio: sei di fila solo nel gennaio 1948), di lunghi viaggi e trasferte, in Paesi anche inattesi, come quelli africani o la Russia sovietica, a cui Gide dedicherà libri a parte, che faranno scalpore per le critiche al regime comunista. Compare a più riprese l’Italia, visitata in lungo e in largo, anche in questo caso con incontri notevoli. Ecco Gabriele d’Annunzio, nell’epifania del 1895: «Tira molto di scherma e cavalca spesso. Domani deve andare a Vinci, il paese di Leonardo; è un pellegrinaggio, dice, e mi propone di accompagnarlo». Pur affascinato da quel giovane dandy «incantevole per eleganza, grazia spavalda e disinvoltura», Gide rifiuta; tuttavia «se non fossi un cavaliere così maldestro, mi piacerebbe andare con lui». Non c’è nel diario, ma è citato nell’introduzione di Gelli, l’incrocio casuale in un ristorante romano con un altro padre delle nostre lettere: «Vedemmo entrare un maestoso vecchio il cui mirabile volto era come aureolato di capelli bianchi... tutti i camerieri del ristorante si inchinavano al suo passaggio... una volta ordinato, rimase immobile e come ipnotizzato; si rianimò soltanto quando gli posarono davanti il piatto, e immediatamente si spogliò della sua nobiltà, della sua dignità, di tutto ciò che lo rendeva superiore agli altri uomini... si aggobbì sul piatto e non sarebbe esatto dire che cominciò a mangiare: si abbuffò; come un orco, come un maiale. Era Carducci».
Letterato al cento per cento, Gide esclude quasi del tutto dal diario il contesto politico: nelle 3 mila pagine non c’è posto neppure per una citazione di De Gaulle; fa eccezione il commosso ricordo di Gandhi, il giorno del suo assassinio: «Era troppo bella, troppo insperata la sua vittoria mistica, il cui fervore spirituale ha sfidato la brutalità; ho il cuore gonfio di ammirazione per una figura tanto sovrumana; e gonfio di singhiozzi. È come una disfatta di Dio, una ritirata». E, se i resoconti della vita matrimoniale e delle varie attrazioni omosessuali, a lungo occultate, oggi paiono di minore interesse, risulta più divertente qualche aspetto caratteriale, come la protesta per resoconti della stampa che impietosamente lo colpiscono per un tratto meschino, la sua proverbiale avarizia: «I giornali hanno raccontato che un amico mi ha visto offrire, eccezionalmente, 50 centesimi a un povero, e che mi ha sentito mormorare, mentre mi chinavo verso di lui: “Sì, ma quando me li restituirete?”». Episodio che, se non è vero, ha il pregio di far sorridere.
Gide, lui, sorrideva assai poco. Spirito tormentato, può essere forse riassunto in una frase acida del 1940: «È incredibile il numero di stupidaggini che una persona intelligente può dire in una giornata. Ne direi sicuramente altrettante, se non stessi quasi sempre zitto». Meno male che, invece, scriveva.