Federico Buffa e Carlo Pizzigoni, il venerdì 1/7/2016, 1 luglio 2016
CUBANI DAL PIEDE REAL
Un tempo lontano, ma non lontanissimo, a Madrid c’era, tra gli altri, un club di fùtbol. Già il fùtbol.
Agli spagnoli il gioco piacque praticamente a prima vista perché aveva tratti di nobiltà comportamentale, ma poteva sanguinare e far sanguinare come in tutte le storie iberiche che si fanno narrare e, arrivato in Europa continentale, assomigliava molto poco, nello spirito, a quel passatempo amatoriale inglese per collegiali abbienti che non avevano bisogno di un arbitro per sapere se era fallo o meno, perché la Brexit da sempre gli albionici l’hanno solo sospesa, non abbandonata.
Quel club si sarebbe chiamato Reai perché gli spagnoli, loro pure, la monarchia han provato a sospenderla, ma non l’hanno mai abbandonata. Denominarsi Reai, tuttavia, non significa necessariamente arieggiarsi da altolocati, anzi. Il Real Madrid Club de Fùtbol infatti ha guardato subito ai quartieri meno abbienti della città, che non eran difficili da trovare, diventando sostanzialmente la squadra obrera, operaia, della capitale. Ai giocatori, già abbondantemente professionisti, veniva raccomandato di venire allo stadio in bici o in tram sino agli anni Cinquanta per non far pensare agli affezionati che il club pagasse troppo i chavales, i ragazzi. Obreros loro, obreros noi. Almeno in apparenza.
Sì, quel club oggi si chiama nello stesso modo, il Real Madrid guarda e si fa guardare in un modo completamente opposto. Colpa di un argentino di nome Alfredo e di uno spagnolo di nome Santiago. Due che, in qualche modo, hanno intercettato storia, passione e sangue (quello che scorre nelle vene) provenienti da lontano. Dal centro delle Americhe, in un’isola che gli americani, quelli del nord, gli avevano sottratto a cavallo del secolo e che se la osservate con attenzione sulla mappa sembra un coccodrillo dormiente. Cuba.
Non ci crederete, ma se ci seguite vi dimostreremo una cosa sorprendente: nelle vene aperte del Real Madrid Club de Fùtbol scoprirete più di una stilla di sangue cubano.
Nell’anno di fondazione del Madrid Club de Fùtbol (diventerà Real Madrid dopo la «benedizione» di re Alfonso XIII, e gradirebbe il giusto sapere che il suo bis-nipote, l’attuale Re di Spagna, Filippo VI, è tifoso dell’Atletico), il 1902, la squadra metteva in campo ben quattro cubani, Antonio Sànchez Neyra e i tre fratelli Giralt, José, Armando e Mario. Quest’ultimo, insieme a Sànchez Neyra, anche membro del comitato direttivo del club, perché il calcio delle origini era anche questo. Dirigente, giocatore, allenatore: à la fois.
Mica solo lì: uno dei fondatori del Milan, sostanzialmente il promotore, Herb Kilpin, nel 1899 in una fiaschetteria di via Berchetha dato vita alla squadra rossonera, di cui era anche il capitano e il miglior giocatore. Teneva una bottiglia dietro la porta, se il Milan prendeva un gol, si faceva un goccetto, per dimenticare.
Quattro cubani nel Madrid, ma non i soli. Altri giocatori nati nell’isola, negli anni a venire, avrebbero indossato la maglia bianca: Ferrer, Inchausti, Lopez, Quesada. Ma nessuno raggiunse le vette del «Chus» Alonso, un Cristiano Ronaldo ante litteram. La tifoseria Bianca spasimava per questo giocatore, oggetto di una vera e propria idolatria, al principio degli anni Quaranta. Nella partita di inaugurazione del nuovo campo della squadra, a Chamartin, la gente era tutta per questo cubano che aveva preso la cittadinanza spagnola: segnò una doppietta e mostrò al pubblico giocate celestiali. Fu il primo che davvero portò il Madrid e soprattutto i suoi tifosi in un’altra dimensione.
Il calcio, il fùtbol, iniziava a far davvero sognare. Era diventata passione, esattamente come in Sudamerica. E proprio dal Sudamerica, un argentino, lui pure poi naturalizzato spagnolo, avrebbe cambiato per sempre le sorti del Real Madrid: Alfredo Di Stefano. Lui pure, come il cubano Alonso, era stato prima avvicinato dal Barcellona. Per organizzare la partita di apertura, quella delle magie del «Chus», il Real Madrid, che voleva diventare grande, cercò di coinvolgere due tra le più grandi squadre dell’epoca, l’Estudiantes de La Piata e, ovviamente, il Grande Torino. All’epoca però si poteva dire di no al Real Madrid, che optò poi per i portoghesi del Belenenses. L’appeal dei Blancos sarebbe cambiato a breve, con l’insediamento del nuovo presidente, il figlio di Dona Antonia del Este, una cubana di Camaguey trasferitasi in Spagna. Quel presidente si chiamava Santiago Bernabéu, uno dei più vincenti della storia dello sport. Lo stadio inaugurato dalle giocate del «Chus», dove Alfredo Di Stefano avrebbe imposto la sua classe, porta oggi, inevitabilmente, il nome del Presidentissimo Bernabéu.
Sorprendente, vi avevamo avvisato. Anche perché l’isola del Caribe invece ha perso piano piano la sua passione. Ricardo Centurión, uno degli eletti alla tavola de Los Galanes, la cerchia del grande scrittore argentino (e appassionato di calcio) Roberto Fontanarrosa, attraversò ammirato il Museo de La Revolución dell’Avana, appuntò alla gentile guida che era stata davvero perfetta, che nel museo però mancava una cosa: «Questa!» disse, prendendosi il lembo superiore, quello vicino al cuore, della maglia. Allo sguardo sorpreso della giovane cubana, Centurión cercò di spiegarsi: «Ernesto Guevara detto il Che io lo conoscevo bene, era di Rosario, come me, e la sua famiglia viveva a pochi isolati da casa mia. Ecco, qui dentro manca uno dei suoi amori: il Che era hincha del Rosario Central».
Niente, la giovane guida continuava a non capire. Cosa sarebbe, caro amico compatriota del Che, questo Rosario Central, e poi, cosa ha detto, hincha? Irrimediabilmente lontani, non solo dal Rosario Central (una delle due squadre che divide il cuore passionale dei rosarini) e dal termine, hincha, tifoso, usato in ogni cantone del latinoamerica per intendere l’appassionato di fùtbol. Irrimediabilmente lontano, il fùtbol da Cuba, e proprio da quando il Che e i barbudos di Fidel Castro presero possesso dell’isola nella notte di Capodanno del 1959. Se al Che, in realtà, non appassionava lo sport di squadra (aveva giocato da giovane a rugby, e la sua fede calcistica per il Rosario Central era più che altro una tenue simpatia), a Castro, e soprattutto a Camilo Cienfuegos, un altro eroe della Revolución, piaceva da matti il beisbol, come lo scrivono nel Caribe, dove è una religione. Nell’euforia della conquista della città di Santa Clara, Cienfuegos, celebrò l’evento organizzando un match del «batti e coni» con un professore del gioco, incidentalmente però anche numero uno della nuova èra di Cuba, Fidel Castro. Avvenimento riproposto dopo la definitiva presa dell’Avana, sempre con Fidel nel ruolo di battitore: ancora oggi potete trovare in alcuni locali dell’Isola la scritta: «Contra Fidel, ni en la pelota».
Dopo che Guevara abbandonò l’isola in cerca di una nuova rivoluzione, in altre parti del Mondo fino a quando trovò la morte in Bolivia, nell’Isola a forma di coccodrillo dormiente, Fidel organizzava lo sport secondo lo spirito socialista, e come modello prese l’Unione Sovietica, divenuta nel frattempo partner strettissima dello stato cubano. In prima fila c’erano gli sport olimpici, che avrebbero poi prodotto un numero spropositato di medaglie e di campioni, simboli stessi dello sport, vissuto nella sua primigenia essenza: gente come «el Caballo» Juantorena e Teofilo Stevenson, il pugile che dopo due ori olimpici, 1972 e 1976, rinunciò a passare professionista e quindi a una borsa di 5 milioni di dollari per incontrare il grande Muhammad Ali perché, come disse più volte, «tutti quei soldi non valevano l’amore di otto milioni di cubani».
Il beisbol tuttavia rimaneva la grande passione di Fidel e del suo popolo, il calcio non avrà più spazio. Nonostante Cuba vanti una partecipazione a un Mondiale, quello del ’34, senza fare neanche malissimo: eliminò la Romania al replay (dopo il 3-3 del primo incontro), poi però prese una ripassata memorabile: 8-0 dalla Svezia. Il fùtbol cubano per molti è morto in quel caldo pomeriggio di giugno ad Antibes.
Non è andata davvero cosi. Quei molti non sanno, infatti, che una passione latina non si cancella. E quella cubana per il fùtbol (oggi in straordinaria rinascita, peraltro), mica si è disciolta lì: ha solo attraversato l’Atlantico per diventare linfa di uno dei club più famosi del Mondo. Forse è per questo che nella Peña madridista dell’Avana (dove è iscritto anche Javier Sotomayor, la leggenda del salto in alto mondiale) si è festeggiato in maniera davvero particolare, con un rum pregiatissimo, la Undecima vittoria della Champions League della squadra oggi allenata da Zinédine Zidane. Eccoci quindi alla celebrazione dell’ennesima vittoria di un club regale, Real, che oggi continua ad alzare trofei grazie a un giocatore nato in un’isola dell’Oceano Atlantico, lì dove sono passate le navi che hanno raggiunto, grazie a un geniale navigatore genovese al servizio dei Re di Spagna, un’altra serie di isole, in quello poi noto come Caribe.
Cristiano Ronaldo (appassionato del cantante cubano Amaury Gutiérrez) è l’erede prima del cubano «Chus» Alonso poi di Alfredo di Stefano. Uomini di mare, di isole. Uomini Real. Che hanno dentro il fùtbol passato anche per quell’isola a forma di coccodrillo dormiente.
Federico Buffa e Carlo Pizzigoni