Benedetta Marietti, il venerdì 1/7/2016, 1 luglio 2016
L’UOMO CHE SPEDI TUTTI ALL’ALTRO MONDO
Nell’agosto del 1905 un giovane esploratore norvegese di nome Roald Amundsen a capo di una spedizione di soli sette uomini e a bordo della Gjöa, una piccola barca a fondo piatto, veleggiò a est dell’isola del re Guglielmo, nel Mar Glaciale Artico, attraversò lo stretto di James Ross e alla fine imboccò il «varco» cercato per oltre 400 anni: aveva trovato il Passaggio a Nordovest. Nella sua autobiografia, Amundsen – l’uomo che sette anni più tardi avrebbe scoperto il Polo Sud e che nel 1926 sarebbe stato il primo a sorvolare il Polo Nord – dichiarò di essersi sempre ispirato alle storie degli uomini di Barrow: «Mi hanno emozionato come nient’altro che io ricordi... E ho deciso di diventare un esploratore».
A John Barrow, secondo segretario dell’Ammiragliato britannico tra il 1804 e il 1855, e forse il più grande promotore di viaggi e imprese (senza mai muoversi dalla sua scrivania) che l’Europa abbia mai avuto, lo scrittore e giornalista Fergus Fleming – che ha ereditato dallo zio Ian (l’autore di James Bond) la passione per le avventure – ha dedicato un libro rigoroso e affascinante, I ragazzi di Barrow, che uscirà il 14 luglio per i tipi di Adelphi (tradotto e curato da Matteo Codignola, pp. 548, euro 35). «Quando mio zio Ian è morto avevo solo cinque anni» ci racconta Fleming, «e non ho nessun ricordo di lui. Ma sono coinvolto personalmente nel suo lavoro, come editore della sua casa editrice, la Queen Anne’s Press, direttore di tutte le sue pubblicazioni, gestore del copyright su James Bond e curatore di un volume di sue lettere (The Man with the Golden Typewriter. Ian Fleming’s James Bond Letters, Bloomsbury). Il segreto del successo dei libri di Bond l’ha rivelato lui stesso in un’intervista: convincere il lettore a voltare pagina il più velocemente possibile. Credo che le storie di imprese e scoperte, come quella di Barrow e dei suoi “ragazzi“, riflettano questa stessa ricetta. Per i primi esploratori il mondo era un libro chiuso. Dovevano aprirlo e voltare pagina».
Dal 1816 in avanti, Barrow, «un uomo dall’aspetto anonimo ma ambizioso, intelligente e tenace», appassionato di cartografia e geografia, promosse e organizzò una trentina di spedizioni, con l’ossessione di risolvere due enigmi: trovare la foce del Niger e soprattutto scoprire un passaggio a Nordovest che permettesse di circumnavigare il Canada collegando l’oceano Atlantico all’oceano Pacifico. Ma nessuna delle spedizioni che organizzò andò a buon fine: «Nelle missioni di Barrow era sbagliato quasi tutto: le consegne, le navi, i rifornimenti, i finanziamenti e i metodi. Forse nessun altro, nella storia dell’esplorazione, ha speso altrettanto per inseguire disperatamente un sogno di così assoluta insensatezza». Eppure, spiega Fleming, «Barrow non era un incompetente, e nemmeno un sognatore. Forse un visionario. Non si può rimproverargli di aver commesso troppi errori, è difficile avere certezze quando si ha a che fare con l’ignoto». Già, l’ignoto. A quei tempi ferveva il Romanticismo e «guglie di ghiaccio, mari in tempesta e tribù di misteriosi selvaggi sembravano molto più interessanti delle aride prospettive dei Lumi».
Barrow era al passo con i tempi. Per di più era convinto che le esplorazioni non solo avrebbero arricchito la conoscenza scientifica ma avrebbero anche aiutato il commercio e impedito che altri Paesi si facessero strada in un mondo sul quale l’Inghilterra regnava incontrastata.
Nel 1818 Barrow affidò la missione di trovare il passaggio al comandante John Ross – un uomo arrogante e vanitoso ma determinato – che raggiunse il canale di Lancaster, lo scambiò per una baia chiusa, ingannato dalla nebbia, dalla rifrazione della luce e dai miraggi, e tornò indietro; ci riproverà nel 1829, portando un piccolo vapore fino al Prince Regent Inlet, a ovest dell’isola di Baffin, ma la sua nave rimarrà intrappolata nel ghiaccio per quattro anni. William Edward Perry-pio, ambizioso e di buon carattere, asso nelle pubbliche relazioni e protetto di Barrow – tentò per ben tre volte di scoprire il Passaggio a Nordovest. Non ci riuscì, ma sono altre le imprese che portò a buon fine: uomo straordinario, organizzò diverse attività per il suo equipaggio durante i lunghi inverni artici, in attesa che arrivasse il disgelo. Mise in piedi un teatro, con tanto di palco e scenografie, per combattere la monotonia, tenere impegnati gli uomini e nello stesso tempo stimolarne l’umorismo e il senso del ridicolo. E diede il via alla «pubblicazione» di un settimanale, la North Georgia Gazetteand Winter Chronicle.
Ma l’impresa narrata più incredibile ha per protagonista John Franklin, un personaggio «timido e adorabile» che in apparenza non aveva nessun requisito per guidare esplorazioni estreme: «Era un gigante rubizzo e buono, profondamente religioso, sensibile, letteralmente incapace di far male a una mosca». Sovrappeso, soffriva di seri problemi di circolazione alle dita di mani e piedi – non proprio l’ideale per combattere il freddo polare. Eppure era dotato di un fascino e di un carisma eccezionali, che spinsero Barrow ad affidargli tre spedizioni. Nella prima, Franklin percorse fra terra e acqua oltre ottomila chilometri, perse undici uomini su venti per fame e cartografo solo un minuscolo tratto di costa. Ma al ritorno in Inghilterra fu acclamato come un eroe, il suo diario diventò un bestseller e passò alla storia come colui che per sopravvivere si era mangiato gli stivali: le scarpe di riserva degli uomini della missione, una volta arrostite o bollite, vennero infatti «divorate con avidità». La terza missione di Franklin fu l’ultima organizzata da Barrow che nel gennaio 1845 andò «finalmente» in pensione. Franklin partì con le navi Erebus e Terror, bene equipaggiate ma troppo grandi e ingombranti per muoversi tra i ghiacci. «Il 26 luglio 1845 furono avvistate all’imboccatura del Canale di Lancaster, in attesa che il ghiaccio si sciogliesse. Secondo i balenieri gli uomini a bordo sembravano allegri, fiduciosi e sicuri di riuscire». Da li in avanti del destino delle due navi e dei 103 uomini di equipaggio non si sarebbe mai saputo nulla. Per decenni gli esploratori successivi avrebbero trovato tracce della spedizione: «brandelli di tessuto, ossa calcinate, effetti personali, provviste, schegge di legno e due cadaveri coricati dentro una barca in secca». Nel 1980, due scienziati americani scoprirono che quei cadaveri contenevano quantità di piombo superiori alla media. Da dove venivano? Probabilmente dalle scatolette del cibo in conserva, sigillate col piombo. Franklin e i suoi uomini sarebbero morti per avvelenamento.
«In un’epoca in cui la parola “scienza“ neppure esisteva, Barrow riuscì a cartografare l’ignoto e a porre le basi delle scoperte del globo del Novecento», con elude Fleming. «Per tutto il XIX e il XX secolo, decine di uomini e di donne avrebbero lottato come lui per conquistare il mondo: oltre a Amundsen, Shackleton e Scott, immolandosi al Polo Sud; Nansen, andando alla deriva nel Mare del Nord; Peary e Cook, rivendicando per sé, fra mille rancori, la scoperta del Polo Nord». Dalle visioni di Barrow ne sarebbero nate molte altre.