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 2016  luglio 01 Venerdì calendario

LA TURCHIA AI MILITARI E LE COLPE DI ERDOGAN

Se il mensile più influente negli ambienti della diplomazia internazionale, e il più vicino al Dipartimento di Stato, ti avverte che i generali stanno per esautorarti, vuol dire che sei messo male; e se quel mensile conferma la sua profezia in un titolo che non ricorre neppure alla precauzione di un punto interrogativo (‘Turkey’s next military coup’, ‘Il prossimo golpe in Turchia’, un mese fa su Foreign Affairs) non hai molto tempo per correre ai ripari.
Recep Tayyip Erdogan sapeva già di essere un presidente pericolante, ragione per la quale ha trasferito il comando della Gendarmeria, i carabinieri turchi, dalle Forze armate al ministero dell’Interno, cioè al suo partito, l’AKP. Ma neppure questa precauzione ora pare sufficiente ad arginare i militari, il cui potere è stato ingigantito dalle guerre che incendiano la Turchia, innanzitutto il conflitto contro il Pkk curdo: se divampassero al di qua e al di là dei confini, lo Stato maggiore diventerebbe definitivamente il centro del potere nazionale.
Da qui l’affanno col quale Erdogan all’improvviso ha chiuso l’aspro contenzioso con Israele e soprattutto con la Russia, due attori che per motivi diversi possono svolgere un ruolo importante nella definizione della questione curda e degli assetti regionali. Subito dopo, la strage all’aeroporto di Istanbul e i dubbi che trascina (perché nessun gruppo terrorista finora ha rivendicato? Perché l’antiterrorismo non riesce a parare questi colpi?) hanno confermato quanto complicato sia per il presidente turco uscire dal labirinto in cui l’hanno condotto una somma di cinismo, paura e smania di grandezza.
Tutto questo riconduce a una questione centrale alle convulsioni dei territori ex ottomani: i militari sono la soluzione oppure il problema?
Obama ritiene che siano un problema e non vuole che in Turchia tornino al potere per la quinta volta. Parte della destra statunitense li considera la soluzione e li incita apertamente al golpe promettendo la stessa comprensione che riversa sull’egiziano Al-Sisi.
L’Europa sarebbe con Obama in via di principio, però vede di buon occhio le caste militari dei Paesi musulmani, ritenendole ‘filo-occidentali’, ‘baluardo contro l’islam’ e ‘unica alternativa alla guerra civile’ (nonché partner tra i più comprensivi negli affari più vari). Questa convinzione, però, è una somma di malintesi. Filo-occidentale e anti-islamico era considerato il generale pachistano Pervez Musharraf, che a Roma, quando era addetto militare, ha lasciato il ricordo di gentiluomo laicissimo: ma tanta grazia non gli ha impedito, in seguito, di resuscitare i Taliban quando erano ormai morti, nascondere Bin Laden e consegnare il ministero dell’Istruzione al più forsennato tra gli islamisti.
È il limite dei generali ‘filo-occidentali’. In genere si dichiarano tutti ‘kemalisti’, cioè seguaci dello Stato laico, ma nella realtà credono unicamente nel potere; e quando occorre non hanno remore a cercare alleati e marionette nell’islamismo più gretto, quello che venera l’autorità e non sindaca gli affari della casta militare, di solito avidissima.
Dirsi kemalisti non ha impedito ai militari turchi di sponsorizzare il fondamentalismo guerriero e di utilizzarlo dapprima nel sud-est come ‘contras’ contro il Pkk curdo, poi in Siria contro Assad, e oggi chissà per quali altre operazioni segrete, ammesso che sia ancora sotto il controllo dei suoi antichi patron.
Ma quel che è peggio, le giunte militari fabbricano guerre civili come nessun altro. Le fabbricano con repressioni sommarie e brutali, con l’ostilità ideologica ai compromessi politici. Nell’ottusa spietatezza con la quale la Turchia in questi mesi devasta il campo dei turchi di etnia curda traspare la mentalità di uno Stato maggiore che considera tradimento qualsiasi concessione.
Ma non meno colpevole è Erdogan. Ancora nel 2013 pareva lo statista che aveva avviato a soluzione il problema curdo e messo finalmente in riga i militari. Poi accadde questo: gli stessi giudici e poliziotti che avevano incarcerato centinaia di militari per sovversione cominciarono a indagare gli affari di familiari e sodali di Erdogan. Per salvarsi Erdogan si alleò con i generali e destituì centinaia di magistrati e poliziotti. Quale sia stato il patto all’origine del contrattacco, tre anni dopo perfino i suoi più stretti collaboratori, rivela Foreign Affair, lamentano che il presidente stia consegnando il Paese alle Forze armate.
di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 1/7/2016