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 2016  giugno 29 Mercoledì calendario

ECCO COME SIAMO ARRIVATI FIN QUI

L’ombra dell’assassinio di Jo Cox, deputata britannica, laburista, militante del fronte remain (in opposizione alla Brexit) si è diffuso su tutta l’Europa e ha investito anche l’Italia che si appresta a celebrare un referendum vitale per il suo futuro, nel quale sarà approvata o respinta la riforma costituzionale, il cui punto cruciale è la fine del bicameralismo perfetto. C’è da dire che questo feroce assassinio non ha giocato più di tanto nelle scelte degli elettori inglesi, visto il risultato e l’indifferenza con la quale l’episodio è stato archiviato. Segno che il cinismo della «ggente» è molto più grande e solido del cinismo dei politici, sin qui considerati i campioni del genere.Quanto all’Italia sembra attenuarsi la tensione che ha attraversato il mondo politico perché, in definitiva, la scelta secca pro o contro il primo ministro Matteo Renzi, oscurava il merito del problema e lasciava che la polemica si svolgesse tutta sull’intorno, su valutazioni politiche sull’azione del governo e sui rapporti con il partito di cui è segretario e leader, mentre ora la questione più grossa, evidente e urgente è la Brexit e la sue conseguenze sulla vacillante costruzione europea.
Non c’è dubbio però che la questione si ripresenterà presto, non appena sarà decisa la data (rinviata) della consultazione elettorale e una qualche sistemazione sarà trovata alla crisi dell’Unione. Il modo di confrontarsi tornerà ad avvelenare gli animi, soprattutto di una parte del Pd, quella che ritiene Renzi un usurpatore, il nemico da uccidere (spero solo politicamente) e da allontanare dalla scena. Peggio, molto peggio dell’ostilità-odio manifestata nei confronti di Berlusconi, talmente viva, ancora, quest’ultima, da fare dichiarare a uno dei tanti disadattati che frequentano il web che «un pezzo di porco» (una valvola) avrebbe salvato un altro «porco». Ed il seguito che è ancora più scandaloso, dato che gente considerata normale e moderata ha aderito entusiasticamente all’inaccettabile, ingenerosa e squallida affermazione. Questo genere di modalità di contestazione e polemica nasce sulla fine dell’educazione civica e politica che ha investito le generazioni più recenti per colpa di una scuola sempre meno impegnata nell’educazione civica e nella trasmissione dei valori fondanti della nostra democrazia, come, contingentemente, descritti dalla Costituzione.
Ora che i grillini, a ragione, menano vanto di una imprevedibile (entro certi limiti) vittoria a Roma e a Torino, molte cose stanno per accadere. Chi frequenta i social, scopre che intellettuali di aree democratiche si sentono folgorati dall’arrivo dei definiti «barbari» fino a una settimana fa, e si esibiscono in approcci, in elogi rivolti a soccorrere, secondo il costume nazionale, il vincitore. Questo medesimo genere di gente alberga, per esempio, anche nel Pd, tanto che un autorevole esponente del partito siciliano, deputato regionale, si è sentito in dovere di scrivere che: «Non mi piace né la pervicacia arrogante di chi non vuole ascoltare la profonda sofferenza nei quadri dirigenti che segnalano da tempo uno sradicamento del Pd dai territori e il deplorevole civismo di chi all’interno del partito sembra sfregarsi le mani per la soddisfazione: forse perché siamo nella terra di Ciccu ’u tintu (Francesco il pessimo ndr), che per fare una nichea (dispetto) alla moglie s’a tagghiau (si tagliò gli attributi)».
Il disagio e, forse, la fine del Pd e, soprattutto degli ex comunisti e degli ex democristiani di sinistra che l’hanno costituito, viene da lontano e sconta una serie di errori tattici e strategici accumulatisi dal 1992 a oggi. La deriva giustizialista che s’era impadronita del Pci-Pds occhettiano aveva impedito la svolta che avrebbe consegnato al Paese una grande forza riformista composta dal Partito di Unità socialista di Craxi e dal Partito comunista. Al Congresso di Bari del Psi, nel famoso «incontro del camper» di Massimo D’Alema e Walter Veltroni con Bettino Craxi erano stati affrontati i problemi pratici di un’intesa che venne poi frustrata e bocciata da Occhetto e dai suoi più stretti collaboratori, legati all’idea di continuare la criminalizzazione del leader socialista, di avviare l’offensiva giudiziaria accuratamente preparata dal ministro della giustizia ombra del partito, Luciano Violante, e di dare un colpo mortale alla prima Repubblica.
Operazione riuscita, salvo che per il fatto che la distruzione di Democrazia Cristiana, socialisti e minori, non produsse la vittoria della «gioiosa macchina da guerra» messa in piedi da Occhetto, ma quella di Berlusconi appena affacciatosi alla vita politica con lo slogan (efficace) di liberalizzare l’Italia e l’intento reale di schivare i pericoli che il suo impero mediatico stava correndo. Le basi, però, del disastro attuale risiedono nell’arrivo di Prodi e della sua (poco attendibile per uno ch’era stato ministro e, per tre volte, presidente dell’Iri) antipolitica, intorno alla quale, con tenacia e pazienza (per superare i limiti di un temperamento rancoroso come quello del professore bolognese e le sue permanenti ubbie politiche e personali) si misurò con efficacia D’Alema, nel frattempo assurto al vertice del Pds e diventato, dopo il fallimento del professore bolognese, nell’ottobre del 1998, il capro espiatorio elettivo di quell’insuccesso.
Il governo Prodi, con la partecipazione come ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi che, al di là e contro la beatificazione ottenuta in vita, era solo un bancario su cui pesava l’errore compiuto nel 1991 che costò all’Italia oltre 50 mila miliardi di lire (e provocò la manovra di salvataggio di Giuliano Amato di oltre 100 mila miliardi di lire) e che lasciò nelle discutibili mani di Mario Draghi un epocale processo di privatizzazione delle imprese di Stato, condusse in porto (non poteva non farlo visto gli impegni assunti da Helmut Kohl con il governo italiano per ottenerne il consenso all’unificazione tedesca) l’ingresso italiano nell’euro, sbagliando le ragioni di cambio e le modalità di ingresso della nuova moneta nel territorio nazionale. Prodi, peraltro, di scuola dossettiana, mentre osteggiava esplicitamente la partecipazione italiana alla guerra Nato per il Kosovo, incappò nell’ultimatum pronunciato da Fausto Bertinotti, capo di Rifondazione comunista, che pretendeva il taglio delle ore lavorative settimanali (in un momento in cui la produttività del «sistema Italia» era già in grave declino). Intorno a questo tempo, pur non essendo obbligato a farlo, fuorviato dai calcoli errati del suo fido Arturo Parisi, Romano Prodi volle un voto di fiducia dal quale uscì battuto e pieno di rancore, come abbiamo detto, nei confronti del leader del Pds.
Il governo successivo, diretto da Massimo D’Alema, fu frutto di un’alleanza tra il Pds (diventato nel frattempo solo Ds), i comunisti italiani transfughi di Rifondazione, e di una nuova formazione politica di centro, di transfughi del centro-destra diretta da Clemente Mastella e promossa da Francesco Cossiga. Il consenso parlamentare ampio, permise a D’Alema di affrontare gli impegni internazionali con successo gestendo la prima guerra del dopoguerra con equilibrio tale da non suscitare speciali contestazioni. Solo lo show-man Michele Santoro volle mostrare la destrutturazione etica e politica di un pezzo di certa sinistra andando a Belgrado, capitale nemica, e trasmettere (a spese della Rai) le scene della guerra viste dalla parte avversa, rendendosi autore di una informazioni disfattista che non ebbe, fortunatamente, nessun effetto. Ma dove D’Alema trovò insormontabili difficoltà fu nell’ostilità manifestata dalla Cgil dello stolido (politicamente) Sergio Cofferati, votatogli a impedire la riforma del mercato del lavoro e delle pensioni: tutti possono capire come una riforma messa in atto nel 1998 da un governo di sinistra-destra non ostile al sindacato sarebbe costata, in termini di sacrifici, molto meno di quanto costò dopo, sino all’intervento distruttivo della ministra «tecnica» Fornero.
Il successivo ritorno di Berlusconi al governo non riuscì ad affrontare e risolvere nessuno dei problemi del paese, visti i contrasti interni e il continuo smarcarsi di Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Intanto, si ripresenta in campo, nei Ds, Walter Veltroni (il segretario che, alla vigilia della sconfitta del 2001, aveva lasciato il suo ufficio per trasferirsi in Campidoglio per lasciare il partito nella mani di un certo pietro Folena, successivamente inabissatosi nell’arcipelago dei gruppetti di sinistra). E, mentre, Prodi vince/non vince le elezioni del 2006, lancia il partito a vocazione maggioritaria che unifica ex democristiani di sinistra ed ex comunisti. Una formazione politica di sinistra, cioè, capace di parlare a tutto il paese, come fa il partito democratico americano, di sinistra o mezzo-sinistra capace di raccogliere i consensi del mondo moderato.
In Sicilia, Veltroni si sublima, nominando segretario del Pd regionale tale Francantonio Genovese, finanziere proprietario di quota dei traghetti dello Stretto, figlio del senatore Genovese «gerente generale dell’Agip» isolana (un unicum dovuto al potente cognato) e della signora Angelina, sorella di Nino Gullotti. Le qualità politiche e deontologiche di questo Genovese (che condusse nel Pd il peggio del vecchio clientelismo democristiano) sono dimostrate dalle sue successive disavventure giudiziarie. Talché c’è da ritenere un miracolo che un partito come il Pd sia continuato a esistere nell’irredimibile isola. L’operazione «partito a vocazione maggioritaria», clamorosamente contraddetta dall’alleanza con la compagnia di ventura di Tonino Di Pietro (intanto Prodi era crollato su se stesso, anche perché Veltroni lo aveva di fatto delegittimato), s’incontra con una clamorosa sconfitta nelle regionali sarde che spingono il «re fellone» Veltroni a una nuova fuga dalle responsabilità, abbandonando il partito nelle mani democristiane di Dario Franceschini.
Il Pd termina poi a Pierluigi Bersani, un apparatchik risoluto, inflessibile portatore di una visione molto datata della politica e promotore di un ceto dirigenziale a lui fedele come una falange macedone (che poi s’è squagliata). Le elezioni del 2013 risultano un fallimento. Il Pd non le vince e il presidente dellla Repubblica Giorgio Napolitano è costretto a promuovere un governo di unità nazionale destra-sinistra, affidato all’esangue e irresoluto Enrico Letta. Renzi vince il Congresso del 2013, diventa presidente del Consiglio e mette in moto un processo di ammodernamento che azzera i vecchi stilemi e i tic ideologici del passato. Vince le europee del 2014 e perde le elezioni comunali del 2016. Va ricordato che il paese è alle prese dal 2008, con una crisi economica epocale, dalla quale non è ancora uscita e che ha asfaltato una parte del ceto medio e il ceto operaio.
Qui si registra la fine politica del comunismo italiano, colpito dalla Nemesi, una sorta di rivincita della Storia nei confronti di coloro che pensarono di lucrare sul crollo dei partiti della prima Repubblica. Da questo mese di giugno 2016 inizia un’altra storia che non riguarda la sinistra, ma tutta la politica italiana, alle prese con la ricostruzione dei fondamentali, sempre più urgente dopo i risultati spagnoli che mostrano la labilità dei movimenti populisti privi di basi ideologiche e teoriche capaci di interpretare la realtà e di definire progetti di attendibili soluzioni.
di Domenico Cacopardo, ItaliaOggi 29/6/2016