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 2016  giugno 26 Domenica calendario

“GLI ATTORI? SONO TUTTI DEI NARCISI, MA VOLONTÉ ERA UNO DEI PIÙ GRANDI” – Citto Maselli ebbe come padrino di battesimo Luigi Pirandello

“GLI ATTORI? SONO TUTTI DEI NARCISI, MA VOLONTÉ ERA UNO DEI PIÙ GRANDI” – Citto Maselli ebbe come padrino di battesimo Luigi Pirandello. Cinque anni dopo, “quando ero solo un bambino, Pirandello stava per andare in America, era il 1935. ‘Devo passare molti lunghi giorni in nave – mi disse – e voglio portarti con me. Ti nascondo in una cesta di vimini e una volta che il piroscafo lascia il porto di Napoli, ti tiro fuori’. Io mi preparavo. Aspettando il fatidico giorno, da appassionato di disegno mettevo da parte i pastelli sognando la partenza. Alla vigilia del viaggio ci fu una grande festa in suo onore e io aspettavo soltanto il momento in cui mi avrebbe detto ‘ora andiamo’. Ma quel momento non arrivava mai. Così quando lo vidi andare via mi precipitai al cancello. Lui mi fece una carezza. Poi chiamò ad alta voce mia madre: ‘Elena, il bambino!’ e la invitò a prendermi. Lo vidi sparire all’orizzonte su una macchina, fu una delusione enorme”. Pirandello partiva per il suo secondo viaggio americano nell’illusione di conquistare Hollywood. Citto Maselli provò a immaginare la propria sul Tevere anni dopo e non si è ancora fermato. Infanzia con suo padre Ercole, critico d’arte, in un salone in cui Alberto Savinio e Corrado Alvaro erano di casa. Adolescenza ribelle durante l’occupazione tedesca, giovinezza da assistente di Antonioni e Visconti, maturità trascorsa a immaginare e a realizzare più di quaranta tra film e documentari. Lettera aperta a un giornale della sera, Gli indifferenti, Codice privato. 86 anni a dicembre, Citto Maselli continua a pensare al cinema e a quello che per più di mezzo secolo è stato il suo universo di riferimento: “Mi dispiace solo di andare poco in sala. È sempre stata una delle mie passioni, ma la sedia a rotelle è un limite oggettivo”. I limiti che aveva da ragazzo quali erano? Da ragazzo non avevo limiti. Sono cresciuto in un periodo in cui stava cambiando il mondo e in cui era normale pensare di poter contribuire al cambiamento. Lei è stato precocissimo. Appena maggiorenne mi diplomai al Centro Sperimentale di Cinematografia e di lì a poco incontrai Visconti. Quello che ancora oggi considero il più grande regista italiano di sempre. Quale fu il motore del vostro incontro? Luchino aveva visto un mio documentario del 1952, Ombrelli e l’aveva apprezzato così tanto da averlo raccomandato a un grande critico francese, Georges Sadoul. Visconti mi volle sul set di Senso, a Venezia. Il copione era stato scritto da Suso Cecchi D’Amico con la collaborazione di Bassani e di Tennessee Williams, ma Luchino ci metteva continuamente mano e lo riscriveva nottetempo. A tarda sera, verso le dieci, mi telefonava: “Puoi venire da me?”. E parlavamo per ore. C’era un rapporto di fiducia. Pochi mesi prima lei aveva partecipato al film collettivo L’amore in città con Risi, Lattuada, Lizzani, Fellini e Antonioni. Il suo episodio, realizzato con Cesare Zavattini, è il più lungo in assoluto. “Noi l’abbiamo fatto con la mano sinistra – mi disse Fellini – e tu invece ti sei impegnato e ci hai fregati tutti”. Zavattini ce l’aveva con Gianluigi Rondi che si era affrettato a decretare morto il Neorealismo e il nostro lavoro tentava di rispondergli proprio su quel terreno. Il suo esordio vero e proprio fu con Gli sbandati, protagonisti Jean-Pierre Mocky e Lucia Bosé. L’idea iniziale era stata di Prandino Visconti, il nipote di Luchino. Rilevai il progetto e lo stravolsi. Volevo fotografare dei ragazzi agiati che nel ‘43 fuggono dal conflitto per sistemarsi in una villa fino a rendersi conto che per diventare liberi è necessario impegnarsi in prima persona sul campo e che non c’è diritto che non vada conquistato con la lotta. Era un film sulla nascita della Resistenza, ma qualche dubbio sulla mia autorità e sulle mie capacità registiche ce l’avevo. Chi li risolse? Visconti. Mise mano al suo patrimonio personale investendo in due ondate più di sette milioni di lire. Mi aiutò a entrare in contatto con Arturo Toscanini che mi permise di girare nella sua villa senza pretendere nulla in cambio. Luchino è stato un vero amico, mi piacerebbe scrivere una sua biografia. Non escludo che un giorno o l’altro mi scappi la penna sul foglio. Con tanto di menzione speciale, Gli sbandati fu invitato al Festival di Venezia. Dopo la proiezione diedi un’intervista a un giornale locale: “Chi l’ha influenzata?”, mi domandano e io senza pensarci troppo dimentico Antonioni e rispondo seccamente: “Visconti e Mizoguchi”. Passano dieci anni e io e Michelangelo ci ritroviamo a cena a Roma. A quel tempo, in stretta dipendenza dai contratti firmati o non firmati, capitava di avere le tasche piene o vuote. Ero in un periodo in cui le mie erano vuotissime e gli chiesi in prestito diecimila lire: “Valle a chiedere a Mizoguchi – mi disse – io non sono mica giapponese” Non se l’era dimenticato. Lei fin da giovane era orgogliosamente comunista. Lo sono ancora, nonostante gli errori e le tragedie che pure sono avvenute e sono innegabili. Il partito italiano di allora era monolitico, fare cinema e provare a esprimersi in libertà senza urtare le sensibilità dei quadri dirigenti risultava difficile. Dopo Lettera aperta al giornale della sera subii una specie di processo. Ci racconti. Il copione metteva in scena un gruppo di intellettuali che un po’ per gioco, un po’ per noia scrive a un quotidiano dichiarando di essere pronto a partire immediatamente per il Vietnam aggredito dagli americani. Quando la provocazione diventa reale, i vietnamiti accolgono positivamente la proposta e gli intellettuali si vedono costretti davvero a partire per il sud-est asiatico, come è ovvio, vanno in crisi. Pajetta mi telefonò la sera prima: “Citto, domani sul giornale troverai un articolo che non piacerà. Se vuoi replicare, sei il benvenuto”. Andai in edicola, comprai l’Unità e trovai una stroncatura di Maurizio Ferrara. Che cosa sosteneva il padre di Giuliano, allora direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci? “Più che ex comunisti – scriveva – sono ex intellettuali che hanno abdicato alla propria funzione. Gente squallida e insignificante”. Naturalmente risposi per le rime. E poi, a cinque anni da quel film, girai Il Sospetto. Anche lì, per un’opera tutto giocata sulla doppiezza e sul cinismo a volte brutale del partito, subii critiche durissime. Io raccontavo una certa disumanità nei rapporti tra dirigenti e militanti, retti da una mentalità che non saprei come altro definire se non militare. Diciamo che per attaccarmi, escluso Longo, si mossero le truppe cammellate. L’attore protagonista de Il sospetto era Gian Maria Volonté. Gian Maria era un bel casino. Aveva bisogno di creare una costante tensione con il regista. Faceva tragedie sul nulla: “Mi avete dato un camerino lillipuziano, non riesco a concentrarmi, ho bisogno di uno spazio più grande”. Glielo cambiavamo e il giorno dopo lui si lamentava ugualmente: “Ho capito cosa vuoi fare concedendomi questo camerino – mi diceva – tu vuoi umiliarmi trattandomi come un divo”. Come mai secondo lei? Era un nevrotico, anzi un gran nevrotico. Discuteva su tutto, a iniziare dalle convocazioni della troupe: “Come mai le maestranze arrivano alle 8 e la mia presenza è prevista soltanto alle 11 di mattina? Non voglio favoritismi, ho bisogno di respirare il clima del set e quindi mi alzerò con loro”. Al terzo giorno di noia e di attesa si infuriò: “Perché devo essere presente alle 8 se non c’è niente che io possa fare davvero?”. Il Volonté attore? Altra storia. Attore straordinario e non solo. Gian Maria era un collaboratore prezioso, attento al copione, alle sfumature, alle finezze. Con Solinas avevo scritto una scena a cui entrambi tenevamo tantissimo. Volonté venne da me e mi propose di tagliare il dialogo: “È verboso, se lo accorciassimo la scena ne guadagnerebbe”. Lo mandai al diavolo, gli dissi di smetterla e fui molto brusco. Poi mi fermai a riflettere. Aveva ragione lui. “Fermi tutti – dissi – questa la giriamo quasi senza dialogo”. E venne meglio di come non sarebbe mai venuta nel copione originale. Lei è sempre stato celebre per saper dirigere sapientemente gli attori. Di grandi attori ne ho diretti tanti, da Rod Steiger a Shelley Winters. Volonté non aveva niente da invidiare a nessuno di loro. Con Steiger lavorò all’adattamento de Gli indifferenti di Moravia per il cinema. Gli venne mandata la sceneggiatura che avevo scritto con Suso Cecchi D’Amico. La lesse, accettò di interpretare il ruolo di Leo Merumeci e viaggiò fino a Capri con Claire Bloom allo scopo di studiare la parte coniugando il lavoro a una breve vacanza. Io e Franco Cristaldi, il produttore del film andammo a trovarlo. Rod venne verso di me entusiasta: “Ho imparato il copione a menadito”. Gli risposi in maniera agghiacciante: “Non preoccuparti, di quel testo non rimarrà una sola parola”. Cristaldi era terreo, mi diede una gomitata e sibilò: “Stai zitto, ti prego”. Cosa intendeva dire a Steiger? Esattamente quel che gli dissi. Rispetto al romanzo di Moravia e al conseguente adattamento di Suso, a quel personaggio un po’ in là con gli anni volevo restituire un fascino. Nella scena in cui fa l’amore con Carla Ardengo interpretata da Claudia Cardinale, ad esempio, Claudia si sarebbe dovuta concedere passivamente a Steiger, con rassegnato disgusto. Riscrissi la scena ribaltandone il senso. Fatto l’amore, Claudia aveva voglia di rifarlo nuovamente. Andai da Steiger a comunicare il cambio di registro in camerino e lui un po’ si lamentò: “Non cominciamo con gli stravolgimenti”. “Alla fine sarai contento, vedrai”, risposi. E Steiger alla fine fu contento? Contentissimo. Gli attori sono narcisi e a Steiger il cambio di prospettiva piacque enormemente. Quando a qualche giorno dall’inizio del film arrivò sul set anche Shelley Winters la accolse tranquillizzandola: “Fai tutto quel che dice, fidati, non te ne pentirai”. Ogni tanto, conoscendomi come regista che dava importanza all’interiorità dei personaggi e a quel che esprimevano anche senza dire una sola parola, veniva da me tra il preoccupato e il complice: “Citto, ma non staremo esagerando con l’interiorità?”. Ma era un modo di scherzare, la lavorazione fu soave. Molti anni dopo, nel 1986, portò a Venezia Storia d’amore, Leone d’Argento e Coppa Volpi per la sua giovane interprete, Valeria Golino allora ventunenne. Valeria fece un provino meraviglioso. Era giovane e molto distante dall’attrice che sarebbe diventata e lontanissima dall’autrice consapevole che avrebbe poi saputo girare un bellissimo film come Miele. Dichiarava ai giornali i suoi sogni. Erano sogni ingenui. Non capiva molto di quel che le stava accadendo. E quali erano i sogni di Valeria Golino a quel tempo? Aveva un’indiscutibile carica erotica e sognava di essere ricordata come una bomba sexy. Direi che le è andata molto meglio. Lei ha lavorato anche con Nastassja Kinski. Una vera attrice drammatica. Un’attrice molto brava. Con quelli bravi l’empatia è immediata e non è una questione di genere maschile o femminile. Dirigere un attore o un’attrice, quando sanno cosa fare, quando hanno carica espressiva o temperamento, mi è assolutamente indifferente. C’è qualche film che non ricorda con piacere? Due o tre li ho sbagliati completamente, a iniziare da La donna del giorno con Virna Lisi. Ci sono cose di cui non vado per niente fiero. Negli ultimi anni, a iniziare dal G8 di Genova del 2001, lei è tornato a raccontare il presente con il documentario. È un modo di provare a sentirsi ancora di sinistra come negli anni del dopoguerra? Vai a capire, in qualche modo forse sì. Ma denunciare il male in sé per sé non mi ha mai affascinato troppo. Cercavo di andare al di là, di dare una lettura anomala, di vedere una prospettiva di evoluzione in tutto quel che raccontavo. Con Pier Paolo Pasolini, negli anni in cui conducevo le battaglie di settore per l’Anac, l’associazione degli autori cinematografici, mi trovavo benissimo nel lavoro e molto meno d’accordo su altri aspetti. Su quali aspetti? Ci dividevano le interpretazioni della realtà. Se un bracciante pugliese attraverso il proprio lavoro riusciva ad acquistare un cappotto, consideravo la cosa per quel che mi sembrava. Un’evoluzione, una conquista, un piccolo ma significativo punto di arrivo. Per Pier Paolo invece il cappotto del bracciante incarnava soltanto il simbolo dell’irreversibile imborghesimento del proletariato. Su questo, non avremmo mai potuto trovarci d’accordo. Proletariato, borghesi, società. Parole e insiemi passati di moda. Nell’analizzare la realtà di quel tempo ci parevano categorie fondamentali. È cambiato tutto e non sono sicuro che il cambiamento abbia portato un vero miglioramento nei rapporti umani. Qualcuno diceva: “Maselli è ideologico”. Anche se mi hanno accusato di esserlo spesso, non mi sono mai sentito un regista ideologico. Come non è ideologico Daniele Vicari, il contemporaneo che per temi e sensibilità sento più affine. C’entra la politica? C’entra lo sguardo di insieme. La politica di oggi le piace? Mi preoccupano e mi inquietano molto i 5Stelle e non mi piace Renzi. Mi sa che proprio come Nanni Moretti in Caro diario, mi troverò sempre d’accordo con una minoranza. Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 26/6/2016